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Suicidio assistito, a Trieste un caso di accanimento

Suicidio assistito, a Trieste un caso di accanimentoLa consegna delle firme in Cassazione per il referendum per l’eutanasia legale – LaPresse

Fine vita Nuovo diniego a Martina Oppelli dell’Azienda sanitaria triestina anche dopo la condanna del Tribunale. L'architetta: «L’Asugi nega l’evidenza: che io sia in una situazione di totale dipendenza vitale da persone, farmaci e macchinari. Non posso, non voglio, subire una tortura di Stato»

Pubblicato 2 mesi faEdizione del 29 agosto 2024

Ha il sapore di un vero e proprio accanimento, quello dell’Azienda sanitaria di Trieste, l’Asugi, che ha negato di nuovo l’accesso al suicidio medicalmente assistito alla 49enne architetta paraplegica Martina Oppelli per una presunta mancanza dell’ultimo requisito richiesto dalla Corte costituzionale nella famosa sentenza Cappato/Dj Fabo del 2019 e ribadito con dettagliata spiegazione un mese fa in una seconda ordinanza: la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale (gli altri sono: capacità di autodeterminarsi, patologia irreversibile e sofferenze non tollerate).

Non a caso, a luglio il Tribunale triestino aveva imposto all’Azienda sanitaria universitaria giuliano isontina di rivalutare entro 30 giorni il diniego opposto alla donna affetta da sclerosi multipla progressiva che attende da oltre dieci mesi di veder riconosciuto il proprio diritto, e aveva condannato l’Asl anche ad un risarcimento pecuniario per ogni giorno di ritardo nella risposta alla paziente. Non è servito a nulla perché, mentre la condizione psico fisica dell’architetta nel frattempo è peggiorata, l’Asugi ha rinnovato il suo niet ribadendo che secondo la Commissione tecnica multidisciplinare per l’accertamento dei requisiti per l’accesso al suicidio medicalmente assistito la paziente non può «ritenersi mantenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale».

LEI, MARTINA, È RIMASTA «basita»: «L’Asugi – ha dettato all’Associazione Coscioni che la supporta nella sua battaglia legale – nega l’evidenza: che io sia in una situazione di totale dipendenza vitale da persone, farmaci e macchinari. Rimango perplessa per come viene descritta la mia condizione fisica e clinica nota da anni agli stessi medici. Secondo loro dovrei assumere ulteriori farmaci che potrebbero, o forse no, attenuare il dolore ma privandomi della lucidità e, dunque, della capacità di decidere. Non posso, non voglio, subire una tortura di Stato». Martina morirebbe senza i tre caregiver che l’assistono ogni giorno, senza i farmaci salva vita e, adesso, anche senza la “macchina della tosse” che rimuove il muco da cui altrimenti verrebbe soffocata. «Per l’Asugi invece quella macchina avrebbe solo uno scopo “preventivo”», riferisce l’avvocata Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Coscioni e a capo del collegio legale di Oppelli.

Spiega Gallo che «nella sentenza 135 del 2024 la Consulta ha chiarito la nozione di trattamenti di sostegno vitale, includendo le procedure come l’evacuazione manuale, l’inserimento di cateteri o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali, normalmente compiute da personale sanitario ma che possono essere apprese anche da familiari o caregiver. Se l’interruzione di questi trattamenti può prevedibilmente causare la morte del paziente in breve tempo, essi devono essere considerati vitali. Pertanto, anche situazioni come quella di Martina Oppelli, in cui la dipendenza da tali trattamenti è evidente, rientrano in questa definizione. Nelle ultime settimane – fa notare Gallo – diverse aziende sanitarie hanno preso atto dell’intervento di questa sentenza, modificando le loro conclusioni proprio in relazione a persone malate in condizioni simili a quelle di Oppelli».

L’AZIENDA SANITARIA di Trieste invece è irremovibile: ieri ha risposto con un comunicato nel quale assicura «un rigoroso approccio metodologico» alla base del nuovo diniego, maturato «nei tempi e nelle modalità indicate dal Tribunale», unito alla convinzione che la Corte costituzionale abbia chiarito, con l’ordinanza di luglio, «che la dipendenza dall’assistenza di terzi integra il requisito necessario all’accesso al suicidio assistito solo ove comporti l’esecuzione di trattamenti di tipo sanitari (senza i quali la morte del paziente interverrebbe anche in tempi relativamente brevi) in mancanza dei quali il requisito non è integrato e la dipendenza dell’assistenza di terzi non assume rilevanza decisiva».

ECCO IL PUNTO: senza una legge, perfino le sentenze dei giudici costituzionali sono alla mercé dell’interpretazione. E, eventualmente, delle diverse convinzioni morali. «Questo nuovo diniego sconcerta e addolora» la responsabile Giustizia del Pd Debora Serracchiani, ex presidente della Regione Friuli Venezia Giulia che invita il parlamento a riaprire il dialogo sul tema e legiferare come esortato dalla Consulta. Anche il resto dell’opposizione insiste: «Purtroppo – puntualizza la capogruppo dei deputati Avs Luana Zanella – una parte del Parlamento blocca una legge nazionale con la conseguenza che ciascuna Regione adotta soluzioni a macchia di leopardo». Oggi, a Trieste, l’Associazione Coscioni spiegherà il «doveroso percorso giudiziario» che Martina Oppelli ha deciso di intraprendere «per far valere il diritto di accesso al suicidio medicalmente assistito».

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