«I requisiti per l’accesso al suicidio assistito restano quelli stabiliti dalla sentenza n. 242 del 2019», conosciuta come Cappato-Dj Fabo, «compresa la dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale», il cui significato va però correttamente interpretato in linea con la «ratio» di quel pronunciamento. Ratio che si basa – scrive la Corte costituzionale nella sentenza 135, depositata ieri, con la quale rigetta le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Gip di Firenze sul caso di Massimiliano – «sul riconoscimento del diritto fondamentale del paziente a rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo». Comprese quelle procedure – si badi bene – che possono essere compiute anche «da familiari o “caregivers”», «indipendentemente dal loro grado di complessità tecnica e di invasività» (come «l’inserimento di cateteri», che invece il governo avrebbe voluto escludere), «sempre che la loro interruzione determini prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo».

È DUNQUE UNA MEZZA vittoria, quella di Marco Cappato e altri volontari dell’associazione Coscioni che avevano aiutato “Mib”, 44enne livornese affetto da sclerosi multipla e dipendente dall’assistenza di terze persone per ogni attività quotidiana, a raggiungere una clinica svizzera dove l’uomo si suicidò l’8 dicembre 2022. Nel procedimento che li riguarda, il Gip di Firenze aveva chiesto ai giudici costituzionali di rimuovere il requisito della dipendenza da trattamenti vitali. Per la Consulta, che ha ribadito «il forte auspicio che il legislatore e il Ssn assicurino concreta e puntuale attuazione ai principi fissati» dalla sentenza del 2019, ferma restando «la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina», il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale non determina «irragionevoli disparità di trattamento tra i pazienti», come supposto dal Gip di Firenze.

In quanto è diritto di ciascun cittadino rinunciare a qualsiasi trattamento, anche necessario per la sopravvivenza, come stabilisce già la legge sul “Testamento biologico” n. 219 del 2017. Fatta dunque salva l’«autodeterminazione» del paziente, che coincide con la «nozione “soggettiva” di dignità», è però «necessario un bilanciamento, a fronte del contrapposto dovere di tutela della vita umana», in modo da evitare abusi ma anche una «pressione sociale indiretta» su persone fragili che possano essere indotte a percepirsi come un peso per gli altri.

NELLA SENTENZA, condivisa da tutti i giudici della Consulta, il paragrafo 9 precisa che «resta naturalmente impregiudicata la necessità di un attento accertamento, da parte del giudice penale, di tutti i requisiti del reato, compreso l’elemento soggettivo». Un modo per evitare massificazioni e rispettare le soggettività dei pazienti e le singole condizioni sulle quali, «nella perdurante assenza di una legge che regoli la materia», saranno ancora i tribunali a dover decidere caso per caso.

L’AVVOCATA FILOMENA Gallo, segretaria dell’associazione Coscioni e a capo del collegio legale che segue numerosi casi, considera «positivo l’ampliamento del diritto a coloro che hanno rifiutato certi trattamenti e a coloro ai quali quei trattamenti sono forniti da personale non medico, nonostante il Governo fosse intervenuto in giudizio per chiedere l’opposto». Sulla base di tale interpretazione, conclude Gallo, «dovranno essere considerate dipendenti da trattamenti di sostegno vitale anche Martina Oppelli e Laura Santi», le due donne che hanno fatto richiesta di suicidio assistito e che sono state ammesse in giudizio dalla Consulta nel procedimento conclusosi ieri.