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Sudan, non si placa la protesta sei mesi dopo il golpe militare

Sudan, non si placa la protesta sei mesi dopo il golpe militare

Khartoum Gli inviati europei e statunitensi ieri hanno esortato le autorità militari a cedere il potere ai civili e hanno offerto pieno sostegno al dialogo intra-sudanese che inizierà il mese prossimo

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 30 aprile 2022

Sei mesi dopo il golpe che il 25 ottobre ha messo fine in Sudan alla transizione democratica cominciata nel 2019 con la rimozione di Omar Al Bashir, gli inviati di Francia, Germania, Norvegia, Regno Unito, Stati uniti e Unione europea ieri hanno esortato le autorità militari a cedere il potere ai civili e offerto pieno sostegno al dialogo intra-sudanese che inizierà il mese prossimo (dal 10 al 12 maggio) facilitato dalla Missione di assistenza alla transizione dell’Onu, dall’Unione africana e dall’Autorità intergovernativa su Sviluppo. Gli inviati hanno tenuto a Khartoum anche incontri con i rappresentanti del Consiglio sovrano, del Fronte rivoluzionario sudanese (Srf), i gruppi del Consenso nazionale e le Forze per la libertà e il cambiamento (Ffc) con l’intento di dare sostegno al popolo sudanese e al rilancio della transizione verso democrazia. Nelle settimane successive al colpo di stato compiuto dal generale Abdel Fattah al Burhan, oltre cento sudanesi sono stati uccisi e centinaia feriti dal fuoco di soldati e poliziotti chiamati a disperdere con la forza le manifestazioni di protesta in tutto il Sudan, in particolare nella capitale Khartoum.

Incontrando gli inviati stranieri, il generale Al Burham e il suo vice Mohamed Hamdan Dagalo (alias Hemetti) a parole si sono detti favorevoli a dare spazio ai civili in futuro. In realtà in questi sei mesi non hanno fatto altro che consolidare in ogni modo il regime militare, anche all’estero, avviando e rinnovando i contatti con la Russia, gli Emirati e le altre petromonarchie del Golfo e con Israele, paese con il quale il Sudan nel 2020 ha siglato un accordo per la normalizzazione dei rapporti (Patto di Abramo). I golpisti hanno anche richiamato nell’amministrazione pubblica una porzione consistente dei funzionari del regime di Omar al Bashir messi da parte dopo il 2019. E un tribunale ha annullato lo scioglimento dell’Islamic Call Organization, un’istituzione islamista molto presente prima della rivolta popolare del 2019, un altro passo verso la riabilitazione degli alleati del precedente regime.

Allo stesso tempo Al Burhan non può ignorare il dialogo tra sudanesi sollecitato dagli inviati internazionali. Questi ultimi hanno avvertito che senza l’istituzione di un governo civile credibile, il Sudan potrebbe perdere 19 miliardi di dollari in aiuti allo sviluppo della Banca mondiale e il suo programma al Fondo monetario internazionale. A tenere i militari sulla corda sono anche gli attivisti sudanesi che continuano ad organizzare manifestazioni e a chiedere il passaggio dei poteri ai civili. «L’opposizione popolare al golpe è sempre intensa» ci dice da Khartoum Lorenzo Scategni, cooperante italiano ed osservatore da anni della realtà sudanese. «Raduni e cortei – aggiunge – si moltiplicano e non si è affievolito il rifiuto dei sudanesi, o di gran parte di essi, del potere dei militari. I golpisti fanno fatica a consolidarsi, sebbene portino avanti una dura repressione nelle strade del paese».

L’instabilità del paese è aggravata dalla ripresa dei combattimenti a El Geneina, capoluogo del Darfur occidentale, dove almeno 200 persone sono morte negli ultimi giorni in scontri tra nomadi arabi e membri della comunità «massalit» che si fronteggiano da decenni per questioni di accesso ai terreni. Le nuove violenze sono esplose dopo l’uccisione di due pastori, quando le tribù arabe hanno attaccato Kereneik con il sostegno delle Forze di supporto rapido (Rsf) ed ex membri della famigerata milizia Janjaweed (Demoni a cavallo).

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