Interrotto alla fine della scorsa settimana dagli stessi mediatori per le troppe tregue firmate e non rispettate dalle parti, il balletto in corso a Gedda sotto l’egida saudita e statunitense tra le delegazioni del generale Abdel Fattah al-Burhan e quella del generale Mohamed Hamdan Dagalo detto Hemeti è ripreso ieri.

NUOVI COLLOQUI in forma indiretta, riferiscono fonti citate da al Arabiya, con al centro sempre la stessa cosa: l’urgenza in Sudan di un cessate il fuoco vero, che darebbe tregua a una popolazione civile stremata e permetterebbe di rispondere a un imperativo umanitario, dopo che le agenzie internazionali – a partire dall’Onu – sono state travolte dalla crisi, delegittimate, saccheggiate, paralizzate dall’insicurezza che perdura nelle aree dove più intensamente si combatte. Dalla capitale al Darfur occidentale e a quello settentrionale, in particolare a Kutom, città devastata per il controllo della locale base militare, con decine di vittime e una montagna di abusi denunciati. Proprio in Darfur i paramilitari delle Forze di supporto rapido di Dagalo (Rsf), un tempo noti come janjaweed, hanno costruito la loro pessima fama.

In questa situazione di caos Unitams, la missione delle Nazioni unite già attiva nel paese per seguire la transizione, è stata prorogata ma per soli sei mesi anziché un anno com’è prassi. D’altro canto Volker Perthes che la guida, nei giorni scorsi è stato dichiarato persona non grata da al-Burhan, in aperta sfida al segretario generale dell’Onu António Guterres, costretto a rinnovare piena fiducia al suo rappresentante ma impossibilitato a garantirgli gli strumenti per un’azione incisiva sulla crisi in atto.

DI TANTA PRESUNTA DIPLOMAZIA, ai sudanesi in balìa da otto settimane di due signori della guerra senza scrupoli, che provano ad accreditarsi anche all’esterno come salvatori della patria, non arriva nulla.

Sulle piattaforme social i due contendenti raccontano tutto e il contrario di tutto, come sarà anche normale nelle guerre moderne. Ci si comincia a chiedere se lo sia lasciare aperti gli account di due criminali di guerra conclamati; sul campo il dramma che si consolida ogni giorno di più, orrori che corrono sugli smartphone, i civili intrappolati in un copione di scontri abbastanza consolidato, almeno nella capitale: le Forze di supporto rapido di Dagalo (Rsf), bene armate e in grado di spostarsi agilmente, spadroneggiano a terra; l’esercito di al-Burhan risponde con i tank e l’aviazione, con la perizia che ci si può immaginare quando a essere colpite sono zone ancora densamente abitate.

Per effetto di uno di questi raid aerei sono morti anche 10 studenti congolesi e diversi altri sono rimasti feriti. Se ne lamenta il ministro degli Esteri di Kinshasa, Christophe Lutundula , chiedendo un corridoio umanitario per evacuare i feriti. E possibilmente un’inchiesta.

DOPO L’AGGHIACCIANTE VICENDA dell’orfanotrofio di Khartoum, in cui dall’inizio della guerra sarebbero morti di stenti 60 bambini, un diverso allarme riguarda adesso l’isola di Tuti, che divide Khartoum dalle “gemelle” Omdurman e Bahri, nel punto in cui il Nilo Azzurro e il Nilo Bianco diventano una cosa sola. Il modernissimo Tuti Bridge, il ponte sospeso che collega l’isola alla terra ferma è stato occupato dalle milizie di Dagalo, convinte forse che al-Burhan ci penserà due volte prima di distruggere un’opera da primato. Gli abitanti denunciano un sequestro di massa e l’esaurimento delle scorte di cibo.

Non lontano da qui le Rsf che finora si erano concentrate sui palazzi del potere e i pochi ospedali ancora agibili hanno occupato anche il Museo nazionale. In questo caso si è temuto – si teme ancora – per i resti di un patrimonio unico al mondo che racconta la storia dell’antica Nubia.