Nella notte il Consiglio di sicurezza dell’Onu si è ritrovato a discutere di Unitams, la «Missione integrata di assistenza alla transizione delle Nazioni Unite in Sudan». Interrogandosi forse sul senso di un suo rinnovo, posto che la «transizione» è stata bruscamente interrotta dal golpe del generale Abdel Al Burhan nel 2021 e dalla guerra civile che dallo scorso aprile vede combattersi senza esclusione di colpi l’esercito leale ad al Burhan e le Rapid Support Forces (Rsf) del generale Mohamed Hamdan Dagalo detto “Hemeti”. La nuova giunta peraltro l’Onu non la vuole più tra i piedi, tanto che l’inviato speciale Volker Perthes è stato dichiarato «persona non grata».

AD OGNI MODO NÉ L’ONU, né gli Stati uniti e l’Arabia saudita, che pure hanno provato a far ragionare i due generali un tempo amici, sono riusciti a ottenere uno straccio di tregua in quetsi mesi. E i civili sono rimasti incastrati nello scontro con armi pesanti e raid aerei che non ha risparmiato centri urbani densamente popolati, provocando migliaia di morti, 5 milioni di sfollati interni e 1,3 milioni di profughi in fuga nei paesi confinanti.

L’ultima analisi di Save the Children calcola in 7.600 il numero di bambini costretti giornalmente a lasciare le loro case e denuncia decine di casi di gravi abusi: ferite, violenze sessuali, arruolamenti forzati, enorme disagio psichico. «Assistiamo a livelli di violenza abominevoli» dice Arif Noor, direttore di Save the Children in Sudan, in un «clima prevalente di impunità» e nell’«indifferenza degli attori internazionali».

Un recente rapporto di Human Rights Watch accusa le Rsf di crimini su base etnica, come l’uccisione a novembre di almeno 800 persone in una deliberata «campagna di atrocità rivolta contro la comunità Massalit», nel Darfur occidentale. Ma anche l’esercito “regolare” in questi mesi non è andato per il sottile: l’ultimo episodio, il bombardamento del mercato centrale di Khartoum, in una zona della città controllata dalle Rsf, risale allo scorso 24 novembre e ha provocato decine di morti.

DA KHARTOUM È FUGGITO a fine luglio con la moglie e un nipote Suliman Ahmed, che avevamo sentito all’inizio della crisi, quando la sua casa era sulla linea del fronte. «Restare è diventato troppo rischioso» raccontava. Poi più nulla. L’Egitto aveva chiuso le frontiere, quindi Suliman prese la strada dell’Etiopia e dopo un viaggio non privo di pericoli,  come migliaia di altri sudanesi in fuga dalla guerra ha trovato rifugio nel campo profughi di Kumer, 70 km oltre la frontiera etiopica, nella regione di Amhara. Che nel frattempo è diventata a sua volta zona di guerra, o almeno di forte instabilità politica e militare, per il rifiuto delle milizie locali di essere integrate nelle forze armate di Addis Abeba, dopo aver combattuto contro i tigrini nel conflitto precedente.

«Nel campo ci sono almeno 7mila profughi sudanesi – racconta Suliman – più circa 3mila persone di nazionalità diverse, in prevalenza eritrei e sud-sudanesi, tutti richiedenti asilo politico. Le condizioni igieniche sono pietose, non ci sono medici disposti a venire fin qui perché è una zona rischiosa, non c’è un collegamento costante a internet quindi non riusciamo a comunicare con i nostri cari scappati in Egitto o residenti in Europa. A settembre è esplosa un’epidemia di colera che ha ucciso 40 persone in poche settimane. E non sono mancate incursioni armate, per rapina o questioni politiche: un ragazzo eritreo per esempio è stato ucciso nella tenda accanto alla nostra».

Le agenzie dell’Onu garantiscono cibo e acqua, ma la distribuzione certi giorni salta o è insufficiente. “Siamo convinti che due terzi degli aiuti finiscano altrove – dice Suliman – e che il personale locale dell’Onu sia in combutta con i soldati che sorvegliano il campo per sfruttare la nostra presenza a Kumer. Questa è una regione poverissima, l’afflusso di aiuti internazionali nella zona è una fonte preziosa. Sospettiamo che vengano ritardate le procedura di esame delle richieste di asilo anche per questo. Noi siamo qui dai primi di agosto e non abbiamo ancora avuto un colloquio».

BISOGNOSO DI CURE, dopo lunga attesa Suliman è stato trasportato per una visita medica nella città di Gondar, che dista tre ore di macchina del campo. Ma lungo la strada l’ambulanza su cui viaggiava insieme a tre connazionali fuggiti dal Darfur è finita in un’imboscata dei ribelli amhara. «Ci hanno condotto nella boscaglia e ci hanno tolto tutto quello che avevamo, telefoni, i pochi soldi rimasti che servivano per comprare abiti invernali al mercato della città». Dopo alcuni giorni trascorsi in un centro dell’Onu a Gondar, sono stati ricondotti nelle loro tende

A Suliman e agli altri rifugiati di Kumer in attesa ora non resta che lanciare un appello all’Alto commisariato per i rifugiati dell’Onu (Unhcr), affinché venga inviata una commissione e  vengano velocizzate le pratiche per la richiesta d’asilo, si migliorino le condizioni di vita nelle tende e vengano protetti gli spostamenti da e per il campo.