Chester Williams se n’è andato quattro anni fa, non ancora cinquantenne, fulminato da un infarto. Quel 24 giugno 1995, quando Sudafrica e Nuova Zelanda si ritrovarono di fronte per la prima e unica volta in una finale della coppa del mondo di rugby, Williams era l’unico giocatore nero a vestire la maglia degli Springboks. Unico nero in mezzo a una squadra di bianchi, alcuni dei quali lo guardavano storto perché per loro Chester Williams restava un intruso. Il rugby era uno sport che i sudafricani bianchi, poco importa se boeri o di origine britannica, consideravano una cosa loro e soltanto loro. Su questa cosa lui, Williams, ha sempre preferito andarci leggero: “Capitava che mi rivolgessero appellativi razzisti durante i match della Currie Cup (il campionato sudafricano, ndr) ma durante quel mondiale lo spirito di squadra era buono, facevamo festa insieme e ci sostenevamo l’un l’altro”. Williams lo ha poi raccontato nella sua autobiografia, “Chester”, e forse è stato generoso nel giudizio. Ma è sicuro che nessuno tirò fuori la storia del token black, del giocatore nero messo lì per salvare le apparenze e dare una parvenza di inclusione, come invece era accaduto anni prima, 1981, con Errol Tobias, primo giocatore coloured a vestire la maglia degli Springboks, che fu qualificato come uno “zio Tom” dai militanti antirazzisti decisi a contestare il tour sudafricano in Nuova Zelanda; o a suo zio Avril Williams, secondo giocatore nero a giocare con i bokke. Lui, Chester, era il terzo, ma la situazione era molto cambiata. In quel 1995 governava l’African National Congress, l’apartheid era una vicenda chiusa pur con qualche fatica, gli Springboks erano stati riammessi nel consesso rugbistico internazionale e Nelson Mandela si apprestava a compiere il suo capolavoro di marketing politico: one team, one country, una squadra, una nazione. Una nazione arcobaleno che aveva persino cambiato l’inno nazionale in senso inclusivo: due parti, cinque lingue, xhosa, zulu, sesotho, afrikaans e inglese. Ai giocatori toccò impararla per bene ma Nkosi Sikeleli Afrika piacque anche a loro. Sono passati quasi trent’anni da quella finale del 1995 e quella partita rimane ancora oggi la più celebre finale nella storia della William Webb Ellis Cup. Capita quando la grande storia e lo sport incrociano i loro cammini e capita ancor più in uno sport come il rugby che nella storia ha sempre vissuto i piedi ben piantati. Le cifre: 105 sfide. 62 successi degli All Blacks, 39 degli Springboks, 4 pareggi. Nessuna altra squadra ha dato tanto filo da torcere ai “tuttineri”.

UN SECOLO DI RIVALITA’ rugbistica, questo è Nuova Zelanda-Sudafrica. Può sembrare tanto ma non è così. Quando il 13 agosto 1921 le due squadre si affrontarono per la prima volta allo stadio di Dunedin, isola del Sud, e vinsero gli All Blacks, il rugby aveva già compiuto un lungo cammino e le sfide incrociate tra le grandi nazioni dell’Emisfero Sud e le nazioni britanniche andava avanti già da un po’, dagli ultimi anni dell’Ottocento. I British Lions ogni tanto si imbarcavano su un piroscafo e andavano in visita in Sudafrica o in Nuova Zelanda e Australia. A loro volta i sudafricani ricambiavano la visita: il primo tour nelle isole britanniche e in Francia è datato 1906. Invece tra Nuova Zelanda e Sudafrica niente, fino al 1921. In questo ignorarsi l’un l’altro c’era una ragione: l’Impero Britannico aveva fondato il gioco del rugby e i sudditi dei dominions era con loro, con quelli della madre patria – inglesi, scozzesi, irlandesi, gallesi, le quattro home nations – che volevano misurarsi. E se possibile batterli, cosa che cominciò ad accadere con una certa regolarità. Finché a un certo punto fu chiaro che sudafricani e neozelandesi erano di gran lunga i più forti e dominavano la scena. E dunque in quel 1921 giunse il momento di incontrarsi e fare i conti.

Le cifre. 105 sfide. 62 successi degli All Blacks, 39 degli Springboks, 4 pareggi. Nessuna altra squadra ha dato tanto filo da torcere ai “tuttineri”. 12 tours, l’ultimo nel 1996, prima che si entrasse nell’era del professionismo e le sfide tra le due superpotenze si disputassero nell’ambito del Tri Nations dell’emisfero Sud. Una finale mondiale (1995) vinta dai Sudafricani e decisa nei tempi supplementari. Tre titoli mondiali a testa: la Nuova Zelanda ha vinto nel 1987, nel 2011 e nel 2015; il Sudafrica nel 1995, nel 2007 e nel 2019. Chi vince domani la 106ª sfida conquista dunque una quarta ambitissima corona mondiale.

I pronostici sono apertissimi. Il Sudafrica si è presentato all’appuntamento di France 2023 con molte solide certezze e un gioco sperimentato. Gli All Blacks con molti quesiti da risolvere e lo hanno fatto in corso d’opera, acquistando sicurezza di partita in partita. Entrambe hanno perso una volta: gli Springboks contro l’Irlanda (13 a 8) nell’ultimo match dei gironi di qualificazione, gli All Blacks nella partita inaugurale contro la Francia (27 a 13). Poi non ce n’è più stato per nessuno. Mestiere, consapevolezza, capacità di assorbire tensioni e uscire dalle sabbie mobili. Punti di forza: i due pacchetti di mischia, a conferma di un vecchio detto per cui con un pack dominante le partite si vincono sempre.

Novità. Nella Nuova Zelanda ce n’è soltanto una: Brodie Retallick in seconda linea fin dall’inizio (Whitelock in panchina), tutto il resto non cambia. Il Sudafrica invece cambia. La coppia in mediana sarà quella formata da Faf De Klerk e Handré Pollard e i due giubilati (Reinach e Libbok) non vanno nemmeno in panchina dove si ritorna alla formula 7 avanti e un trequarti, segno evidente che coach Rassie Erasmus, lo stratega, vuole vincere imponendosi sul confronto fisico.

Nuova Zelanda: B. Barrett; Jordan, Ioane, J. Barrett, Tele’a; Mo’unga, Smith; Savea, Cane, Frizell; S. Barrett, Retallick; Lomax, Taylor, De Groot.

Sudafrica: Willemse; Arendse, Kriel, De Allende, Kolbe; Pollard, De Klerk; Vermeulen, Du Toit, Kolisi; Mostert, Etzebeth; Malherbe, Mbonambi, Kitshoff.

TV: Sky Sport Arena e Raisport HD, 21:00.