Il Parlamento del Sudafrica, insediatosi venerdì dopo le elezioni generali del 29 maggio, ha rieletto al termine della sua prima seduta, per un secondo mandato, il presidente Ciryl Ramaphosa. La conferma arriva in seguito a uno storico accordo di coalizione tra African National Congress (Anc) e i partiti di opposizione, Alleanza Democratica (Da, liberali di centrodestra), il Partito della Libertà Inkhata (Ifp, partito con tendenze nazionaliste Zulu) e l’Alleanza Patriottica (Ap, che vorrebbe reintrodurre la pena di morte e deportare gli immigrati clandestini).

L’ACCORDO POLITICO è in realtà la parte più interessante, la grande novità della prossima legislatura. Si è chiuso il trentennio di dominio dell’Anc, cominciato con la fine dell’Apartheid nel 1994. Il partito resta la formazione di maggioranza, ma con appena il 40% dei voti. A dire il vero, l’Anc avrebbe lavorato per formare un governo di unità nazionale con tutti e 17 i partiti rappresentati in Parlamento, ma ha ricevuto due grandi “no” che hanno trascinato tutti gli altri: quello del partito populista di estrema sinistra Economic Freedom Fighters (Eff) di Julius Malema, che sin dal giuramento dei nuovi parlamentari ha cercato di boicottare la seduta criticando l’accordo di maggioranza, e soprattutto quello dell’uMkhonto weSizwe (Mk) dell’ex-presidente Jacob Zuma, che ha annunciato un «discorso alla nazione» per oggi e ha depositato una denuncia in cui contesta irregolarità nel processo elettorale.

RAMAPHOSA, 71 ANNI, dovrà prestare giuramento la prossima settimana. Caponegoziatore di Mandela, businessman ricchissimo, vicepresidente sotto Zuma fino al 2018, presidente dopo le dimissioni del suo predecessore fino ad oggi, politico abile e cauto, Ramaphosa non ha mai storto il naso di fronte all’ipotesi di un governo di unità nazionale, anche per una certa bramosia politica di dimostrare l’inclusività dell’Anc. La prossima partita sarà quella più complessa, perché si dovrà formare un governo con una varietà che il Sudafrica, la acciaccata Nazione arcobaleno, in effetti non ha mai avuto prima: al suo interno ci saranno visioni politiche che, almeno negli ultimi 30 anni, sono state inconciliabili tra loro. John Steenhuisen, il leader di Da, è accusato da molti di cercare di proteggere i privilegi economici accumulati dalla minoranza bianca sin dall’era dell’Apartheid, accuse sempre respinte ma che stonano con la storia di lotta e sofferenza che invece si porta dietro l’Anc, a sua volta accusato dallo stesso Steenhuisen di avere occupato tutti i settori pubblici con i propri quadri. Inoltre, il giorno dopo le elezioni, la Da aveva diffuso un comunicato ufficiale in cui diceva che avrebbe fatto «tutto ciò che è in nostro potere» per evitare l’alleanza con l’Anc. Un proclama scioltosi in fretta.

IN QUESTO FRAGILE EQUILIBRIO politico, l’economia del Sudafrica attraversa oggi una situazione particolarmente difficile: i dati ufficiali mostrano un gigante africano che crescerà dell’1,6% il prossimo anno (più dell’anno scorso), ma raccontano poco della realtà quotidiana di un’economia che si sta sgretolando a un ritmo sempre più sostenuto. L’ultima grande emergenza riguarda l’energia: intere zone del Paese, anche distretti industriali, restano scollegate dalla rete elettrica a volte anche per giorni, con gravi ripercussioni, anche sulla semplice possibilità di aprire i negozi o le fabbriche. Un’emergenza che è anche sociale, e la litigiosità già emersa nel nuovo Parlamento sudafricano ne è la cartina tornasole: disuguaglianze sociali mai colmate, corruzione diffusa e disoccupazione al 60% sono i tre ingredienti di una crisi ampia e diffusa, nel Paese più a sud del grande continente africano.

Il Ramaphosa-bis, infine, è lo specchio di una politica che propone da decenni sempre gli stessi grandi anziani della lotta contro il regime razzista, che però poco rappresentano un Paese sempre più giovane, con il 35% della popolazione sotto i 19 anni e oltre la metà nata dopo la fine dell’Apartheid.