Sono almeno sei i morti, centinaia e centinaia gli studenti feriti in seguito alle proteste in corso in Bangladesh contro il sistema delle quote nei posti di lavoro pubblici. Represse con violenza dalle forze di sicurezza, trasformate in una caccia al dissidente dai membri della Chhatra League, la famigerata branca giovanile e studentesca del partito di governo Awami League, le proteste sono iniziate ai primi di luglio.

Poche settimane dopo che, il 5 giugno, l’Alta Corte di Dacca reintroducesse la quota di posti governativi per i familiari dei veterani di guerra e combattenti per la libertà. Introdotta per la prima volta nel 1972 da Sheikh Mujibur Rahman, «padre della patria» e dell’attuale prima ministra Sheikh Hasina che nel 2018, dopo forti proteste, aveva rimossa la norma, la quota oggi prevede che il 30% dei posti nel servizio pubblico siano destinati ai parenti di chi ha combattuto nella sanguinosa guerra con cui l’allora Bengala orientale conquistò, con l’aiuto fondamentale dell’India, l’indipendenza dal Pakistan, divenendo Bangladesh nel 1971.

CONSIDERATE strumento di nepotismo, a tutto vantaggio degli affiliati alla Awami League, partito che governa ininterrottamente dal 2009, le quote sono state contestate dagli studenti in tutto il paese, dalla capitale Dacca dove si registrano due morti, a Chittagong (o Chattogram) dove i morti sono almeno tre, passando per Rangpur, verso il confine nord-occidentale con l’India, un morto.

Le immagini circolate sui social mostrano i campus universitari e le strade delle città trasformati in campi di battaglia: polizia in tenuta anti-sommossa, gas lacrimogeni, proiettili di gomma, machete, canne di bambù, mazze usate violentemente anche contro studentesse inermi, scontri tra membri della Chhatra League e manifestanti.

Icona drammatica di questo nuovo, grave episodio della lunga saga di repressione del dissenso e violazioni della libertà di espressione nel paese, è la foto proveniente da Rangpur: Abu Sayeed, studente di inglese della Begum Rokeya University, in mano un bastone, le braccia aperte e il petto proteso verso le forze di sicurezza. Appena prima che, secondo le ricostruzioni, venisse ucciso dalla polizia.

Già due giorni fa il ministro dell’istruzione ha ordinato la chiusura a tempo indeterminato di ogni scuola e università, ma le proteste sono proseguite anche ieri, con scontri e un forte dispiegamento di forze di sicurezza, incluso quelle paramilitari. Andranno avanti fino a quando le richieste degli studenti non saranno soddisfatte, ha dichiarato Nahid Islam, uno dei coordinatori. Che rivendica la natura spontanea delle manifestazioni, anche se il principale partito di opposizione, il Bangladesh Nationalist Party, prova a capitalizzare politicamente il malcontento verso la prima ministra Sheikh Hasina.

Proprio Hasina ha reso più grave la situazione riferendosi ai giovani manifestanti con l’espressione «Razakars», con cui si indica coloro che, al tempo della guerra per l’indipendenza, hanno collaborato con il Pakistan. «Se i nipoti dei combattenti per la libertà non ricevono le quote, dovrebbero riceverle forse i nipoti dei Razakars?», ha chiesto retoricamente la lady di ferro asiatica.

IL PROBLEMA delle quote – che oltre al 30% ai familiari dei combattenti per la libertà riserva il 10% a chi proviene dalle aree più svantaggiate, il 10 alle donne, il 5 alle minoranze, l’1 ai disabili – è concreto e specifico. Ma rimanda ai problemi sistemici del paese. Il primo è la corruzione capillare, che trasforma un mezzo di redistribuzione delle opportunità in occasione di scambi e favori, dunque di ingiustizia: da qui l’invocazione del «merito».

Il secondo è la frustrazione crescente dei più giovani per il regime autoritario di Sheikh Hasina, che nel gennaio scorso si è aggiudicata un quarto mandato, con elezioni boicottate dall’opposizione, tra accuse di brogli e repressione. Hasina per molti anni ha rivendicato un’economia al galoppo, ma da un paio di anni, con lo scoppio della guerra in Ucraina, l’aumento dei costi energetici, la crescita dell’inflazione e un sistema che non riesce ad assorbire la forza-lavoro né a ridurre le disuguaglianze, la retorica dello «smart Bangladesh» non funziona più.