Il «decreto Bollette» approvato ieri contiene anche un sostanzioso capitolo dedicato alla sanità. La norma limiterà il ricorso ai medici a gettone e sosterrà le aziende farmaceutiche con una riduzione degli importi dovuti per il cosiddetto «payback».

Per quanto riguarda le esternalizzazioni, l’obiettivo dichiarato è abbassare i costi per la sanità pubblica, innalzare gli standard di qualità e rendere meno attraente la carriera da «gettonista» rispetto a quella ordinaria, visto che l’aumento del carico di lavoro dovuto alla pandemia sta generando una fuga dal posto fisso in ospedale. Le esternalizzazioni dovranno avere una durata massima di un anno non prorogabile e potranno riguardare solo i servizi di emergenza e urgenza, cioè il pronto soccorso.

Il ministero della salute, con l’aiuto dell’autorità anti-corruzione, si impegna a fissare tariffe massime per remunerare i professionisti ingaggiati a questo scopo, che oggi arrivano a guadagnare 100-150 euro l’ora. I medici a gettone dovranno possedere gli stessi titoli richiesti ai medici assunti, mentre oggi in regime di outsourcing si può lavorare in corsia senza specializzazione. Anche agli specializzandi sarà permesso assumere questi incarichi, fino a un massimo di 8 ore settimanali per un compenso di 40 euro l’ora. Altra novità: i professionisti che avranno lavorato a qualunque titolo per almeno 6 mesi negli ospedali saranno avvantaggiati nei concorsi pubblici. Infine, i medici che lasciano l’ospedale per trasformarsi in gettonisti non potranno tornare nella sanità pubblica.

Il decreto prevede anche incentivi per i medici di pronto soccorso che svolgono straordinari, un provvedimento anticipato dallo stanziamento di 200 milioni di euro nell’ultima finanziaria. «La strada è giusta, ma non è detto che basti» è il commento del presidente degli Ordini dei medici Filippo Anelli al quotidiano il Messaggero. «Oltre che sul piano economico, si dovrebbe intervenire sul miglioramento delle condizioni di lavoro». Il rischio è che i medici a gettone non siano sostituiti da nuove assunzioni, e sia l’utente a farne le spese.

Il decreto mira anche a risolvere la vertenza tra Regioni e aziende farmaceutiche sul cosiddetto payback: è la norma che obbliga le imprese a partecipare al riequilibrio dei conti delle Regioni che sforano i tetti di spesa per farmaci e dispositivi medici generando maggiori profitti per le aziende. Il meccanismo esiste dal 2007 e per il 2022 ammonta a circa 2,2 miliardi di euro da versare al governo. Questi versamenti però sono contestati dalle aziende in un gran numero di ricorsi amministrativi che riguardano anche gli anni passati, e finora sono rimasti in gran parte sulla carta. Con il decreto di ieri, il governo ha stanziato 1,1 miliardi di euro per coprire una parte della spesa delle regioni del 2023, venendo incontro alle aziende che rinunciano al contenzioso con un ulteriore sconto basato sulla detrazione dell’Iva.

Lo scambio è giudicato «inaccettabile» dal presidente di Confindustria Dispositivi Medici Massimiliano Boggetti: «Il payback deve essere cancellato» ha detto ancora prima che iniziasse la riunione del governo. «Questa misura – ha concluso Boggetti – decreterà la fine del Servizio Sanitario Nazionale e dell’attrattività del nostro Paese da parte delle imprese dei dispositivi medici. Per questo abbiamo intenzione di andare avanti con i ricorsi al Tar». Il partito della premier sta con gli imprenditori e intende cancellare il payback: «Mi impegno a tentare di fare quest’operazione», ha detto ieri Francesco Zaffini (Fdi), senatore e presidente della Commissione Affari Sociali.