Erano tutti dello stesso villaggio del Bangladesh vittime e superstiti del naufragio di domenica scorsa nelle acque internazionali tra Libia, Malta e Italia. Amici o parenti partiti l’8 marzo da Tobruk, una cittadina della Cirenaica a 100 chilometri dal confine egiziano. Hanno preso il mare in 47 su un barchino di legno che dopo meno di tre giorni aveva finito carburante, acqua e cibo. A Pozzallo, però, sono arrivati solo in 17, salvati dal mercantile Froland. Hanno tra 18 e 30 anni.

QUANDO IL MEZZO su cui i migranti erano alla deriva si è ribaltato, 30 ore dopo il primo Sos lanciato dal centralino Alarm Phone, la maggior parte è stata portata via dalle onde. Tranne chi è riuscito ad aggrapparsi alla chiglia del barchino. L’equipaggio della nave ha calato delle scalette in legno dal fianco. Tra quelli che erano ancora vivi non tutti sono riusciti a raggiungerle. Alcuni erano ormai troppo stanchi. Sono stati trascinati dal mare sotto gli occhi degli amici.

IL RACCONTO è stato riferito, tra le lacrime, agli operatori del team di Medici Senza Frontiere accorso in Sicilia per portare soccorso psicologico. Il mediatore culturale è la prima persona capace di comprendere la loro lingua incontrata un giorno dopo lo sbarco. «La prima richiesta è stata un telefono per chiamare le famiglie – racconta Marina Castellano, responsabile dell’intervento Msf – Dall’altro capo del telefono le madri sono esplose di gioia. Sentivamo le urla. Le famiglie erano convinte che fossero tutti morti. Avevano saputo del naufragio dai social». Durante i colloqui con il personale della Ong i ragazzi si sono stretti l’un l’altro, per farsi forza a vicenda. Quando uno di loro ha comunicato ai parenti che zio e cugino erano scomparsi, piangendo, gli altri gli sono andati vicino. «Gli accarezzavano le spalle, la testa», continua Castellano.

«LA GENTE MUORE e il governo pensa ai voti», ha dichiarato ieri il sindaco di Pozzallo Roberto Ammatuna. Intanto sul fronte delle responsabilità Alarm Phone, Sea Watch e Mediterranea sono tornate ad accusare Italia e Malta: «queste morti non sono il risultato di un incidente, ma la conseguenza di scelte politiche deliberate». Le Ong sostengono che si è perso tempo attendendo che la sedicente «guardia costiera» libica intervenisse per portare indietro i migranti. Non è avvenuto perché il barcone era a 400 chilometri da Tripoli e sulla più vicina Benghazi governano altri potentati. «Ritardare i soccorsi e delegarli a navi mercantili non equipaggiate fa parte di una strategia politica che finisce per consegnare le persone nelle mani delle milizie libiche o abbandonarle in mare», accusano le organizzazioni umanitarie.

A SOSTEGNO della loro tesi hanno fornito una ricostruzione dettagliata di ogni passaggio dall’evento. Dalla timeline risulta che solo alle 18.44, riferiscono i libici, la guardia costiera italiana avrebbe assunto il coordinamento del caso. Eppure sia Alarm Phone che Sea-Watch avevano fatto pressioni su Roma affinché prendesse in carico il barcone in pericolo molte ore prima. Venerdì notte il centralino aveva anche contattato l’armatore del mercantile Amax Avenue chiedendo di deviare la rotta. Senza esito visto che non era un’indicazione ufficiale. Senza esito anche la segnalazione di sabato mattina su un’altra nave in transito vicino al target, la Gamma Star. Le Ong hanno fatto pressioni anche su La Valletta. Nessuna risposta. Una consuetudine delle autorità maltesi in violazione dell’obbligo di cooperazione tra Stati imposto dalla Convenzione di Amburgo e perfino al memorandum of understanding sul soccorso in mare che le autorità dell’isola hanno con Tripoli.

SEMPRE IERI la guardia costiera turca ha fatto sapere che due barconi con 42 persone si sono ribaltati al largo del distretto di Aydin. Quattro i morti. A Cutro invece le vittime sono salite a 81. In tutto il Mediterraneo nel 2023 si contano già, secondo l’Oim, circa 400 vittime.