Storie di chi resta
Il documentario A Castiglione d’Otranto un gruppo di trentenni ha aperto la Casa delle AgriCulture. La loro storia nel film di Alessandra Coppola «La restanza»
Il documentario A Castiglione d’Otranto un gruppo di trentenni ha aperto la Casa delle AgriCulture. La loro storia nel film di Alessandra Coppola «La restanza»
Trattenersi, fermarsi, prestare ascolto e decidere di restare. Scegliere di vivere il luogo in cui si è nati e abitarlo consapevolmente. Rimanere per ripartire dalla terra. L’altra faccia della medaglia dell’altrove è il reinventarsi qui dove si è. Il polo opposto dell’emigrazione. Una scelta pensata ma anche sudata, che restituisce dignità alle radici e rende liberi dalle mere logiche di mercato. Lo sanno bene a Castiglione d’Otranto, in provincia di Lecce, dove un gruppo di giovani trentenni ha rivoluzionato le proprie vite partendo da ciò che aveva a disposizione. La loro storia è diventata un film. Si intitola La Restanza il lavoro cinematografico, realizzato in sinergia tra l’Italia e il Belgio, della regista e sceneggiatrice Alessandra Coppola, che verrà proiettato oggi all’Apollo Undici a Roma e sabato 2 luglio in Piazza della Libertà a Castiglione. Un freno alla speculazione della terra. Un argine allo spopolamento che prima ha desertificato le campagne, poi i borghi e via via le città.
NEL DOCUMENTARIO DI COPPOLA CI SONO sei anni di racconto della Casa delle AgriCulture, un progetto partito anni addietro inizialmente come associazione intitolata a Tullia e Gino Girolomoni, i padri del biologico italiano, e dal 2018 come cooperativa. L’idea nasce da un gruppo di amici impegnati in ambito culturale sin dall’adolescenza. A presiedere l’associazione c’è la giornalista Tiziana Colluto, membro del consiglio di amministrazione assieme agli altri cinque soci fondatori della cooperativa agricola. «Riconquistiamo il rapporto con ciò che ci precede», pronunciano i protagonisti del film mentre affondano le mani nella terra. Ciò che da più parti è tenuto ai margini della società, la campagna, i contadini, i migranti, Casa delle AgriCulture lo ha riportato al centro dell’esistenza. Non sono bastate le lamentele dei più anziani, a cui il lavoro nei campi resta impresso come troppo faticoso, a farli desistere. Lì dove si produceva tabacco e olio, ora ci sono campi coltivati di grani, grani antichi e legumi. Con un’iniziativa di raccolta fondi dal basso è stata acquistata una grande macina e con un finanziamento altrettanto cospicuo, a cui hanno fatto da garante i pochi con un lavoro stabile, è stato possibile costruire il primo mulino di comunità del Salento.
La scelta di Tiziana, Donato, Rocco, Puce, Francesco e Fulvio è stata profonda. Fatta di interrogativi su come, perché, cosa fare per restare. Da ciò che era stato abbandonato è emersa la risposta. Una ventina di ettari circa è stata messa a disposizione in comodato d’uso da chi quei campi li possedeva ma non li curava più. Sono stati bonificati e messi a coltura. L’agricoltura biologica ha impiegato tre anni per dargli dei risultati, annunciati poi, con giubilo, alla Notte Verde, la festa organizzata da Casa delle AgriCulture che anima Castiglione ogni estate e in cui si celebra la conclusione del ciclo agricolo e la sua ripartenza. A Castiglione sono ripartiti tutti. Anche chi non ha partecipato in prima persona. Ci sono i gruppi di acquisto popolare. Con i patti di filiera cerealicola, poi, si è creata un’alleanza tra i produttori. Il mulino di comunità viene utilizzato da tutti. Per la farina a doppio zero qui non c’è più posto. Ci sono i grani antichi. Questa è una storia che parla una lingua antica. È quella dei nonni, di nonno Uccio, che oggi se fosse vivo sarebbe centenario. È la storia di chi inverte la rotta e smette di credere che l’emigrazione sia la soluzione ai problemi economici, ecologici e politici. Con l’economia di prossimità a Castiglione si è contrapposta alla disunità, alla frammentazione la decisione di «camminare insieme». Sono numerose le iniziative: c’è un “Vivaio dell’Inclusione”, un progetto per i più piccoli chiamato “Verso l’agriludoteca di comunità” ed uno di antimafia sociale “È fatto giorno”.
IN LA RESTANZA TUTTO CIÒ EMERGE con l’irruenza della realtà quando si fa poesia. C’è musica, speranza, fatica, preoccupazione. Ci sono scenari che rievocano i film di Edoardo Winspeare e che in questo caso sono il frutto di un lavoro filmico certosino sulla realtà. C’è un Salento sullo sfondo che conduce altre battaglie, quella contro il gasdotto Tap in primis. Ci sono ancora cittadini dell’estremo Sud che sognano la Svizzera, la Germania, che vorrebbero andar via. Ma al centro c’è un radicamento profondo all’identità. È come se, al netto di tutte le fatiche, sia solo una l’entità a cui spetta decretare la partenza. È la natura, la terra. Quella che non tradisce, non manda via, non rinnega i suoi abitanti. Occorre solo riconoscerla, restituirle il nome, il potere e la grazia di cui è ammantata.
LA RESTANZA HA LA CAPACITÀ di commuovere, di interrogare, di donare speranza. Del resto il concetto di restanza, elaborato e studiato approfonditamente dall’antropologo Vito Teti, docente ordinario di Antropologia culturale presso l’Università della Calabria, «significa sentirsi ancorati e insieme spaesati in un luogo da proteggere e nel contempo da rigenerare radicalmente». Lo spiega nel suo ultimo libro, pubblicato ad aprile per Einaudi, a cui ha dedicato il titolo. «La restanza – scrive – è un fenomeno del presente che riguarda la necessità, il desiderio, la volontà di generare un nuovo senso dei luoghi. È questo un tempo segnato dalle migrazioni, ma è anche il tempo, più silenzioso, di chi resta nel suo luogo di origine e lo vive, lo cammina, lo interpreta, in una vertigine continua di cambiamenti. La pandemia, l’emergenza climatica, le grandi migrazioni sembra stiano modificando il nostro rapporto con il corpo, con lo spazio, con la morte, con gli altri, e pongono l’esigenza di immaginare nuove comunità, impongono a chi parte e a chi resta nuove pratiche dell’abitare. Sono oggi molte le narrazioni, spesso retoriche e senza profondità, che idealizzano la vita nei piccoli paesi, rimuovendone, insieme alla durezza, le pratiche di memoria e di speranza di chi ha voluto o ha dovuto rimanere. La restanza non riguarda soltanto i piccoli paesi, ma anche le città, le metropoli, le periferie. Se problematicamente assunta, non è una scelta di comodo o attesa di qualcosa, né apatia, né vocazione a contemplare la fine dei luoghi, ma è un processo dinamico e creativo, conflittuale, ma potenzialmente rigenerativo tanto del luogo abitato, quanto per coloro che restano ad abitarlo».
NON È UN CASO CHE ALLA PROIEZIONE del 2 luglio del film di Coppola, la prima in Puglia dopo varie tappe nazionali e internazionali, ci sia tra gli ospiti anche lui. Il Salento è un grande laboratorio di restanza. Qui è nata “Daìmon: A scuola per restare”, un progetto ideato da Gianluca Palma, in cui i luoghi di apprendimento sono «disseminati nei campi, nelle cantine e nelle botteghe». La sua idea di scuola è rivolta «a chi vorrà abitare poeticamente e civicamente i propri territori e a chi vorrà conferire pienezza al proprio re-stare». Esattamente ciò che i protagonisti del film di Coppola La Restanza esprimono, guidati dalla tenacia e dalla passione.
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