Alla fine della Seconda guerra mondiale, quando l’imperativo non solo dell’economia e della società in genere, ma anche della cultura europea era la ricostruzione, il mondo della musica si trovò ad affrontare una sfida senza precedenti. Dopo il completo fallimento delle avanguardie storiche – o perché riassorbite in qualche modo dai linguaggi tradizionali o perché disperse in una diaspora intellettuale che aveva frammentato la loro forza innovativa – sembrò necessario riformulare una teoria musicale oggettiva e razionale, in grado di superare, diversamente da come era stato fatto nel recente passato, i limiti del linguaggio basato sull’armonia tonale, ormai inadeguata a confrontarsi con la modernità.

Altrettanto chiara, tuttavia, era l’esigenza di includere nella nuova teoria musicale elementi espressivi assai più disparati che in passato, provenienti da culture europee e non, di natura anche popolare ed etnica, veicoli di un’estetica non soltanto formale, bensì influenzata da contenuti filosofici, sociologici, religiosi. La prospettiva sonora, anch’essa andava allargata a misura delle nuove frontiere aperte da sviluppi tecnici, allora appena immaginabili.

La poesia nel suo futuro

A raccogliere la sfida fu la generazione di musicisti che uscì dalla guerra avendo sui vent’anni – Pierre Boulez, Luigi Nono, Luciano Berio, e – ancora più giovane – Karlheinz Stockhausen, che la guerra la visse da adolescente e più da vicino degli altri, con un padre morto al fronte negli ultimi giorni del conflitto, una madre eliminata dai medici nazisti perché malata di mente, un’esperienza traumatica come barelliere in un ospedale militare pieno di soldati gravemente feriti, di entrambi gli eserciti.

Analogamente a quanto era avvenuto nella musica europea attorno alla metà del Seicento, quando un florilegio di trattati fu la premessa della rivoluzione tonale che avrebbe dominato per oltre tre secoli il linguaggio musicale, tutti gli esponenti di primo piano dell’avanguardia del dopoguerra furono anche prolifici scrittori, compreso Bruno Maderna, benché forse il meno portato a teorizzare i processi compositivi della nuova musica.

Quanto a Stockhausen, la sua ambizione sarebbe stata diventare non musicista bensì poeta, un’inclinazione condivisa, del resto, con Robert Schumann e soprattutto con Richard Wagner, che rimane forse il suo predecessore più illustre. Divenne, invece, il più coerente e determinato nel definire su nuove basi teoretiche i risultati e gli sviluppi pratici e filosofici del proprio lavoro, sia in forma strumentale, sia elettronica, teatrale o vocale, accompagnando sempre la sua copiosa produzione musicale con una pratica di scrittura altrettanto generosa, rincalzata da conferenze, lezioni, seminari poi trascritti e raccolti.

Autore, tranne rarissime eccezioni, dei testi di tutte le sue composizioni, Stockhausen mise insieme – tra produzione saggistica e letteraria – diciassette volumi di Texte zur Musik, ai quali si aggiungono svariate raccolte di analisi musicali preparate per i leggendari corsi tenuti nella casa di Kürten, conferenze, corrispondenza, articoli per giornali e riviste, testi per trasmissioni radiofoniche.

Nel Novecento, soltanto il lascito di John Cage arriva, quantitativamente e soprattutto sul piano filosofico, a controbilanciare questo imponente corpus di scritti teoretici, tuttora disponibile solo in lingua tedesca. Ma qualcosa si sta muovendo: il primo volume della serie di Texte zur Musik, l’unico peraltro a essere già stato tradotto in un’altra lingua (il francese, da Contrechamps éditions, 2017) arriva ora anche al pubblico italiano grazie alle edizioni Shake, che in questi giorni mandano in libreria Testi sulla musica elettronica e strumentale 1952-1962 – Saggi sulla teoria della composizione (traduzione di Irina Scelsi, pp. 260, € 29,00) a cura di Massimiliano Viel, compositore di musica strumentale ed elettronica, allievo di Stockhausen, che del suo libro internazionalmente più noto – Stockhausen on Music – aveva già curato nel 2014 l’edizione italiana.

Mentre, dieci anni fa, nella sua ampia e dettagliata introduzione alla figura di Stockhausen, Viel aveva chiarito in maniera puntuale gli aspetti essenziali del suo pensiero musicale, questa volta ha scelto un atteggiamento minimalista, privandoci della sua esperienza e competenza, che sarebbero stati di grande aiuto nell’inquadrare questi testi nella cornice della nuova musica di quegli anni.

Cosa rende – a distanza di sei, sette decenni – questi scritti del primo Stockhausen così interessanti? Per esempio il fatto che, a partire da Kreuzspiel, composto nel 1951, la sua produzione musicale sia sempre stata diligentemente affiancata da una riflessione teorica, che ha trovato la sua espressione più compiuta nella rivista «die Reihe» (La serie), da lui curata insieme al fondatore, nel 1955, Herbert Eimert, compositore e musicologo della vecchia avanguardia, che dopo la guerra era stato chiamato a riorganizzare la radio di Colonia, e in questa veste ne aveva convinto i dirigenti a allestire nel 1951 uno Studio di musica elettronica, destinato a diventare la roccaforte delle ricerche di Stockhausen, e il laboratorio di nuovi processi compositivi che nel corso degli anni Cinquanta hanno completamente trasformato il panorama musicale. Chiusa nel 1962, «die Reihe», è stata una sorta di cerniera tra la musica d’avanguardia del primo Novecento e i giovani compositori del dopoguerra, che sembravano essere usciti dal nulla, senza radici o influenze evidenti nella generazione precedente.

Polemiche scientifiche

La particolare venerazione per Anton Webern, al quale fu dedicato il secondo numero della rivista in occasione del decennale della morte, fissava l’asticella al di sotto della quale nessun musicista poteva più permettersi di indugiare, se voleva essere considerato moderno. Al compositore austriaco, Stockhausen faceva risalire il risveglio della sua sensibilità percettiva, che si tradusse per lui nell’andare oltre i suoni strumentali e lavorare direttamente sulle componenti primarie armoniche del suono. In Webern trovava, inoltre, la radice di un pensiero musicale costruttivo che intendeva organizzare l’intero organismo sonoro a partire da una serie.

Da «die Reihe» vengono alcuni dei saggi più importanti del primo volume dei Texte, ovviamente selezionati e ordinati dallo stesso Stockhausen, in particolare …come passa il tempo… (…wie die Zeit verghet…), datato 1957, e comparso nel terzo numero della rivista, intitolato «Artigianato musicale», assieme a scritti di John Cage e di Henry Pousseur. Il saggio, che toccava un tema cruciale per il decennio «puntillista» di Stockhausen, ovvero come trovare una forma razionale nel rapporto tra composizione e tempo, sollevò soprattutto da parte del mondo scientifico un vespaio di polemiche per come certe definizioni del tempo della fisica contemporanea venivano applicate alla teoria musicale.

La riflessione teorica di quel primo decennio, basata in gran parte su nozioni matematiche o statistiche, come la teoria dell’informazione di Shannon, che Stockhausen apprese all’Università di Bonn da Werner Meyer-Eppler, aveva di solito radici nella manipolazione empirica del materiale musicale.

A partire da Kontakte, che era la risposta musical-compositiva ai principi teorici espressi in …come passa il tempo…, la fiducia nella statistica e nella fisiologia come fonti primarie del pensiero sulla percezione musicale cominciò a incrinarsi. Scritto tra il 1958 e il 1960, il brano mescola il nastro magnetico elaborato in studio a due esecutori – un percussionista e un pianista – ma soprattutto inserisce una nuova variabile nell’esecuzione, lo stesso autore come regista del suono. Lo slittamento dalla necessità di una formulazione teorica al primato dell’ascolto creativo, che sarà il nucleo del lavoro musicale di Stockhausen degli anni Sessanta, è lo sfondo critico del testo che chiude la raccolta, Invenzione e scoperta. Un contributo alla genesi della forma, l’ultimo importante saggio teorico di Stockhausen, scritto nel 1961, prima di chiudersi in un lungo silenzio ermeneutico interrotto solo dieci anni dopo con la composizione di Mantra.

La lettura del libro di Raymond Ruyer La genèse des formes vivantes aveva reso consapevole Stockhausen del fatto che, come aveva già sperimentato sul campo con la regia del suono, ascoltare una musica con tutti i sensi in allerta e pronti a cogliere i minimi rapporti tra gli eventi sonori, implica «imbattersi in una forma (o forme) di cui, come ascoltatore, non si aveva alcuna idea, perché si trova al di fuori del proprio campo di immaginazione. Ciò comporta un’attenzione aperta e vigile all’inaspettato e la capacità di accettare ciò che è estraneo, ciò che non ci si è inventato da soli».

Il saggio è anche una sorta di retrospettiva critica sul primo decennio della propria produzione, sulla fase eroica dell’assalto al cielo che Stockhausen chiuse non appena comprese come la purezza teorica della nuova musica – gli scintilli diamantini inesorabilmente tagliati da Webern (questa la metafora di Stravinskij) rischiavano di portare in un cul de sac.