Di scrittori, nei circa ottanta libri di Stephen King, se ne trovano molti, e a  volte – per esempio nel recente e molto bello Billy Summers – la scrittura è il vero Leitmotiv del romanzo. In alcune e celebri occasioni, il prolifico autore del Maine ha affrontato diversi e specifici aspetti del suo mestiere: il rapporto con un pubblico adorante, ma anche imperiosamente esigente in  Misery, o quello con un alter ego nascosto dietro lo pseudonimo, ma capace di vivere di vita propria, in La metà oscura. Non ha tuttavia ancora messo a tema la relazione degli scrittori con quell’altro genere di alter ego che è il loro traduttore: è possibile che deciderà di farlo se leggerà il libro appena scritto su di lui da Luca Briasco, da qualche anno la sua voce italiana, in  Il re di tutti Un ritratto di Stephen King (Salani, pp. 160, € 16,00).

Senza perdersi in analisi sofisticate o dotte dissertazioni, Briasco lascia che siano le pagine a parlare, illustrando nei fatti la complessità sottile della relazione tra autore e traduttore: le dinamiche dell’immedesimazione che spingono a rintracciare somiglianze nelle rispettive esperienze, per capire a fondo e condividere quel frammento di realtà che lo scrittore trasferisce nella sua opera; l’esaltazione di quell’empatia che è sempre all’origine del rapporto fra chi scrive e chi legge, ma viene elevata qui all’ennesima potenza.

Discreto e cauto, Briasco non permette mai alla sua esperienza e alla sua presenza di sovrastare l’Io del protagonista e l’oggetto del suo studio, che nella fattispecie non è l’opera di Stephen King, compito ciclopico, ma che si limita a metterne a fuoco l’autore, attraverso le interviste, le introduzioni e le postfazioni, i romanzi e i racconti. Quella di Briasco è un’indagine succinta, finalizzata a rintracciare le pietre angolari della cattedrale di parole e di storie che King va edificando da poco meno di cinquant’anni, ma che aveva cominciato a immaginare già da bambino.

Molti tra i libri maggiori dello scrittore del Maine sono citati, interpretati e scandagliati, seguendo un percorso diverso, a volte opposto, rispetto a quello abituale alla critica. Briasco adopera i fatti della vita di King per analizzare in profondità la sua narrativa, ma è soprattutto attraverso i libri che ne scopre i tratti più intimi e più segreti: ovvero, le molle nascoste della sua opera. Il risultato è spesso illuminante, imperdibile per chiunque ami lo scrittore di Bangor.

Supportato dalle dichiarazioni dello stesso King, Briasco legge il classico Misery anche come una metafora della tossicodipendenza attraverso la quale è passato, per lunghi anni, l’autore. Individua in un racconto del 1980, La scimmia, la chiave per decodificare l’impatto duraturo dell’abbandono da parte del padre, che aveva piantato in asso la famiglia quando Stephen aveva due anni.

Attraverso un esame della satira antireaganiana di Cose preziose, Il traduttore-scrittore ricostruisce il rapporto con la politica di King, dal supporto alla campagna presidenziale del 1964 di Barry Goldwater – al cui confronto Trump è un mite socialdemocratico – al movimentismo dei tardi anni Sessanta e poi al puntuale schieramento liberal. Individua nel capolavoro It, che per Briasco è quell’eterno santo graal denominato «Grande Romanzo Americano», una summa di tutto l’immaginario horror, il testo più autobiografico che King abbia mai scritto, una panoramica impietosa sull’involuzione dell’America e molto altro ancora: come tutti i grandissimi romanzi, infatti, «ha la capacità di trasformarsi a ogni lettura, di acquisire nuovi livelli di significato».

Le pagine più chiarificatrici sono forse quelle dedicate a Shining e al confronto con il film che ne trasse Stanley Kubrick, la più celebrata ma anche la più infedele e traditrice tra le innumerevoli trasposizioni cinematografiche delle opere di King. Anche Shining ha un’origine autobiografica: Stephen, che è un Family Man per eccellenza, scoprì di provare pulsioni violente e distruttive nei confronti di quella stessa famiglia, moglie e tre figli, che pure amava profondamente. E a rendere il romanzo così tragico e straziante è proprio la contraddizione tra l’amore del protagonista per i suoi famigliari e le sue tentazioni sterminatrici, un marchio indelebile lasciato dagli abusi subìti da bambino. Kubrick capovolse il romanzo.

Diversamente dagli autori mainstream, che per lo più parlano di persone straordinarie in circostanze ordinarie, King intende raccontare sempre vicende che trattano di persone qualunque in circostanze eccezionali: Briasco lo ricorda, insieme al fatto che Kubrick trasformò invece il protagonista, Jack Torrence, in una granguignolesca e in fondo banale incarnazione del male, perdendone completamente di vista la tragedia interiore, e sorvolando sul suo amore ricambiato per la moglie e il figlio, che pure prova a uccidere. Film eccezionale dal punto di vista tecnico, Shining era privo di anima. Così come Kubrick si fermò alla superficie dei fatti, né del resto era interessato ad altro, a Harold Bloom, critico letterario immenso ma prigioniero di una impostazione del tutto accademica, sfuggirono i segreti del maestro dell’horror e della sua arte.

Reiterata in ogni romanzo e in ogni racconto, la sfida di King sta nel costruire storie profonde, quasi sempre tragiche, senza rinunciare alla missione di divertire il lettore. Il suo marchio di fabbrica è la capacità impareggiata di coniugare la lezione della grande letteratura con quella della cultura pop della sua epoca e della sua generazione: i b-movies degli anni Cinquanta, la letteratura di genere, i comics, il rock’n’roll. Di fronte a questo azzardo, moltissimi per decenni hanno storto il naso; ma con Stephen King il tempo è stato galantuomo: oggi pochi resteranno sorpresi o scandalizzati scoprendo che un grande conoscitore e critico della letteratura americana come Briasco considera l’autore di It un gigante della narrativa: di sempre, non solo contemporanea.