Gli ultimi in ordine cronologico sono stati i 130 – su 509 – dell’area Engineering di Modena: si tratta di un quarto dei progettisti che dovevano disegnare le prossime Maserati. E arrivano dopo i tagli pesantissimi agli Enti centrali di Torino che hanno ridotto il settore «Ricerca» dell’ex Fiat a livelli infimi.

Il conto delle «uscite volontarie» da Stellantis in Italia si aggiorna continuamente. Funziona così: l’azienda comunica «esuberi» in ogni stabilimento, i sindacati cercano di ridurne il numero e poi trovano lavoratori disposti ad accettare la lauta buona uscita che Stellantis elargisce loro. Così in teoria di «esuberi» non ce ne sono, in realtà però la dismissione dell’unico produttore di auto in Italia procede spedita.

COME DARE TORTO a ognuno dei 45 mila dipendenti rimasti negli stabilimenti italiani che decidono di lasciare? «Si tratta di uscite volontarie, ma, in assenza di prospettive credibili, quale lavoratore non si guarderebbe intorno?», attacca la Fiom, l’unico sindacato che ha deciso di non firmare gli ultimi accordi in materia di «uscite volontarie».

Il ceo di Stellantis Carlos Tavares

Da quando è nata Stellantis – finta fusione, in realtà acquisizione da parte del gigante francese Psa della piccola olandese-americana Fca – nel 2022 il conto è impressionante: le «uscite volontarie» sono state 1.560 a Torino, 850 a Cassino, 500 a Melfi, 424 a Pomigliano, 121 a Termoli (dove deve ancora vedere la luce la mitica Gigafactory delle batterie che doveva aumentare l’occupazione), 100 a Pratola Serra e 30 a Cento (dove si producono ancora motori diesel senza nuovo futuro produttivo), 23 ad Atessa, 12 a Verrone. Sommati ai 173 di Modena – oltre ai 130 ingegneri ci sono altri 43 operai – il totale è di 3.793, pari a oltre l’8 per cento del totale dei dipendenti italiani.

Va poi tenuto conto che gli «esuberi» richiesti da Stellantis sarebbero stati molti di più e l’idea che la «transizione elettrica prevede un terzo di dipendenti in meno» è un’altra sparata che non ha riscontri in Francia, Germania, Polonia, Serbia e cioè in tutti i paesi europei dove il gruppo produce e l’occupazione è rimasta uguale o perfino aumentata.

CHI NON VUOLE VEDERE la dismissione in atto, continua a bersi la favola del «milione di auto l’anno». Un obiettivo completametne irrealistico anche nel 2024.

Il ministro delle Imprese e made in Italy Adolfo Urso

Ogni tre mesi dall’ormai lontano 2012, Ferdinando Uliano, da poche settimane promosso segretario generale della Fim Cisl, produce un precisissimo «Report sulla produzione» in Italia. L’ultimo è di questa settima e recita: «Nei primi tre mesi del 2024, dopo due anni di crescita c’è un’inversione di tendenza rispetto al trimestre dell’anno precedente: meno 9,8% rispetto al 2023. Nello specifico sono state prodotte, tra autovetture e furgoni commerciali, 170.415 unità contro le 188.910 del 2023. La produzione di autovetture segna un -23,8%, pari a 105.255. Negli stabilimenti di produzione delle auto abbiamo riscontrato una situazione particolarmente negativa. Fatta eccezione per Pomigliano, gli altri quattro stabilimenti dimezzano la produzione con flessioni molto significative». Numeri che «allontanano l’obiettivo di 1 milione di veicoli», prevede Uliano, che dà un giudizio molto negativo del comportamento di Stellantis: «Senza un piano preciso e condiviso per la transizione industriale attivabile immediatamente, il rischio licenziamento e desertificazione industriale diventa certezza».

LO STESSO ULIANO, insieme anche alla Uilm, da tempo chiede a Stellantis di portare in Italia produzioni di modelli di classe B, le ex utilitarie, come furono la Punto per Melfi e la Panda per Pomigliano, chiesta a gran voce perfino dal vescovo Beniamino De Palma ai tempi di Marchionne.

ESATTAMENTE IL RIBALTAMENTO della filosofia dello stesso Marchionne che con la fusione con Chrysler decise di puntare tutto sulle auto di alta gamma – le Jeep in primis, assemblate a Melfi e spedite negli States – sulle quali il margine di guadagno è superiore. Ma se il margine di guadagno è superiore rispetto alle utilitarie, il numero di auto vendute è molto inferiore e proprio quella «rivoluzione» nella nazione della Cinquecento, della Seicento e poi della Uno ha prodotto riduzioni drastiche delle produzioni e un decennio di cassa integrazione per i lavoratori.

LA SVOLTA DEL RITORNO dell’unità sindacale è dunque figlia della presa d’atto da parte dei «sindacati firmatari» che la rivoluzione di Marchionne è fallita e va totalmente ribaltata: tornare a produrre auto per tutti, non solo per i ricchi.

L’idea va di pari passo con la fine dello storico monopolio Fiat in Italia. Anche in questo caso era stata la Fiom la prima a proporlo proprio durante il referendum di Mirafiori nel 2011. L’allora responsabile auto Giorgio Airaudo parlò della necessità di avere un secondo produttore. Quattordici anni dopo ora lo propone il ministro Urso. Che però non ha ancora trovato veri pretendenti. E che non sembra avere il coraggio di rompere il tabù torinese di abbattere il monopolio degli Agnelli. La famiglia che continua a guadagnare miliardi mentre i torinesi continuano a perdere lavoro.