Stazzema, così mio padre si salvò
Sant'Anna di Stazzema, commemorazione dell'eccidio
Italia

Stazzema, così mio padre si salvò

La storia L’arrivo dei tedeschi, la fuga nei boschi, l’uccisione della madre. Solo dopo decenni Alberto Guadagnucci si è deciso a raccontare la sua storia. Suo figlio ne ha fatto un libro
Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 10 agosto 2017

Alberto quel giorno fece la scelta più importante della sua vita, la scelta che lo salvò da morte quasi certa. Non ne fu subito cosciente, perché non poteva prevedere quanto sarebbe avvenuto dopo avere udito l’allarme concitato dato da qualcuno la mattina presto: «I tedeschi, i tedeschi!» Era il 12 agosto del ’44 e Alberto, dieci anni ancora da compiere, era arrivato da poche settimane a Sant’Anna di Stazzema con la madre Elena, dopo l’ordine di sfollamento dalla costa.

Quella mattina, nella frazione dell’Argentiera, si trattò di decidere che fare in pochi istanti. I maschi adulti si avviarono verso il bosco, per timore del rastrellamento; donne e bambini restarono sulla soglia di casa, perché i tedeschi – questo si sapeva – cercavano i partigiani.

La mamma chiamò Alberto, che a quell’ora era già alzato e fuori casa: «Vieni qui, dove vai? Vieni a casa». Ma Alberto disobbedì. Seguì il suo amichetto Arnaldo che s‘avviava nel bosco col nonno Pasquale. Alberto rivide sua madre il giorno dopo: era ancora viva, scampata alla strage nelle stalle della Vaccareccia. Si era salvata coperta dai corpi di altre persone; ferita a una gamba, era cosciente, ma non poteva muoversi. Non c’erano barelle, né uomini in grado di trasportare l’inferma all’ospedale da campo di Valdicastello.

Alberto e l’Angiò, un’amica di Elena che era con lui, riuscirono a trovare qualcuno in grado di eseguire il trasporto solo il giorno dopo: quando arrivarono alla Vaccareccia, Elena era ancora lì, ma non respirava più.

ALBERTO È MIO PADRE, oggi ha quasi 84 anni e ha raccontato in famiglia questa storia che ha segnato la sua vita solo una decina di anni fa. Noi figli sapevamo che lui era uno scampato alla strage di Sant’Anna di Stazzema, che sua madre era morta lassù e questo era tutto. Da bambini d’estate si saliva in paese, ma nulla ci veniva detto e nulla noi si chiedeva, coscienti che il silenzio, per qualche misteriosa ragione, era una necessità.

QUANDO MIO PADRE ha cominciato a raccontare, o meglio a scrivere i suoi ricordi del tempo, era in corso il processo al tribunale militare della Spezia contro dieci ex appartenenti alle SS, poi condannati all’ergastolo nel 2005.

Il processo aveva spezzato la consegna del silenzio, osservata da mio padre come dagli altri sopravvissuti. Per la prima volta lo stato accoglieva in un luogo pubblico, un’aula di giustizia, il racconto dell’eccidio fatto dai testimoni, dopo sessant’anni di risentimenti, trascorsi fra l’astio verso i partigiani e la rabbia verso uno stato che non cercava i responsabili dell’eccidio e chiudeva illegalmente i documenti in un archivio.

ALBERTO HA PASSATO ai figli il testimone e io ho scoperto sulla mia pelle che certi traumi sono davvero ereditari, che Sant’Anna riguarda anche me. Perciò ho preso i suoi scritti e ho provato a mettermi nelle sue scarpe, raccontando la strage come se io fossi lui: ne è venuto fuori Era un giorno qualsiasi, uscito per Terre di mezzo l’anno scorso.

Il libro non è solo il racconto in presa diretta dell’eccidio, perché mi sono chiesto qual è il senso della memoria delle stragi; mi assillava una domanda: perché è importante, ancora oggi, ricordare questi episodi? A che ci serve? Ho provato a rispondere tenendo in primo piano la figura di Elena, una donna comune, né antifascista né partigiana, una persona qualunque fra gli innumerevoli sommersi della storia. L’esperienza di quelli come lei non si trova nei libri di storia, se non al capitolo commozione per i caduti. E se invece mettessimo al centro dell’attenzione la vita di queste persone e il modo in cui sono morte? Che messaggio ci arriverebbe?

L’ESPLORAZIONE È COMINCIATA così ed è ancora in corso, e io credo di avere raggiunto alcune – sia pure provvisorie – persuasioni. Mi pare, in primo luogo, che la memoria delle stragi non possa più essere racchiusa nel perimetro consueto occupazione – resistenza – liberazione. C’è di più. C’è la vita e la morte della gente comune, che ha subito l’esercizio del potere nella sua forma più pura e più estrema, l’annientamento sistematico dei corpi. I cosiddetti martiri di Sant’Anna furono spazzati via da un corpo militare ideologizzato e unico al mondo – le SS – ma altre Sant’Anna sono venute dopo il ’44 e altre ve ne erano state nei decenni precedenti, perché l’eccidio di persone comuni col fine di seminare il terrore non è stato nella storia un’esclusiva delle SS, ma un elemento tipico delle guerre moderne. Si uccidono i civili perché in guerra c’è un’umanità declassata – gli altri da noi, non importa se combattenti – i cui corpi non contano.

Se questo è vero, ecco che salire a Sant’Anna diventa un’occasione per pensare alle altre Sant’Anna che si ripetono nel mondo. Davanti al sacrario in cima al colle, sotto il quale sono sepolti centinaia di corpi comuni, i corpi non eccellenti di non eroi, dovremmo domandarci quanto spesso si ripete la distinzione fra un’umanità da salvare a una sub umanità che può essere eliminata, cancellata, tenuta fuori dalla porta.

CHE COS’ERA IN FONDO Alberto nel ’44? Con parole di oggi lo potremmo definire un profugo di guerra e un minore non accompagnato, visto che a dieci anni perse la madre e che lei, in assenza di un padre, era tutta la sua famiglia. E così sali a Sant’Anna (e a Marzabotto, Vinca e così via) e pensi non solo ai nazisti e ai partigiani ma anche alla Siria e alla Libia, a Lampedusa e a Lesbo, alle Ong che vogliono salvare vite e vengono tacciate di estremismo umanitario. I luoghi della memoria sono zone di frontiera, perché il loro carico di storia e di dolore è fonte di ispirazione e sorgente di senso: le politiche della memoria oggi tendono a disinnescare questo potenziale di consavolezza e di invito all’azione, ma nuove prospettive possono essere sviluppate e aggiunte, come la critica alla guerra in quanto tale, il disarmo nucleare e convenzionale, l’apertura di un varco per la nonviolenza…

«ERA UN GIORNO QUALSIASI», alla fine, è solo l’inizio di questo percorso. Sabato 12 agosto con Claudia Buratti abbiamo organizzato una camminata a Sant’Anna attraverso la mulattiera che Elena e Alberto (e anche una colonna di SS) percorsero al tempo: sarà un’occasione di riflessione sul senso della memoria (per chi vuole partecipare, l’appuntamento è alle 8 davanti alla chiesa di Valdicastello, arrivo previsto alle 10). Sempre sabato, debutterà a Seravezza (Sagrato del Duomo, ore 21), poco distante da Sant’Anna, lo spettacolo che la cooperativa Giolli, con Massimiliano Filoni e Vanja Buzzini, ha tratto dal libro: non è teatro classico bensì una performance che dialoga col pubblico, una metafora – se vogliamo – del futuro che può avere la memoria delle stragi: restare com’è, ossia celebrazione e sollievo per la liberazione di allora, oppure diventare qualcos’altro, da costruire insieme, per dare un retroterra etico e culturale a chi oggi lotta dalla parte dei sommersi della storia.

* autore di “Era un giorno qualsiasi”, Terre di mezzo 2016

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