L’état d’urgence ha una storia lunga e intrecciata con quella della Francia coloniale. La versione originale della legge del 3 aprile 1955 stabilisce che lo stato di emergenza possa essere dichiarato in due casi: pericolo imminente derivante da gravi attentati all’ordine pubblico; eventi qualificabili, dal ministero dell’Interno, come calamità pubbliche per natura e gravità.

La prima volta lo stato di emergenza venne dichiarato dal generale Charles De Gaulle in applicazione dell’articolo 16 della Costituzione ed esteso a tutta l’Algeria dopo la rivolta del 20 agosto 1955. Il 17 maggio 1958, quando il primo governo lampo di Pierre Pflimlin chiese la dichiarazione dell’état d’urgence a seguito della costituzione di un governo di pubblica sicurezza ad Algeri, in aperta ribellione contro l’esecutivo francese. Questo stato di emergenza si interrompe grazie a de Gaulle che tuttavia lo dichiara di nuovo il 22 aprile 1961 in tutti i dipartimenti della Francia metropolitana, dopo quello che si ricorda come il «golpe dei generali».

Viene dichiarato nuovamente il 22 aprile 1961, estendendone l’applicazione contro quegli stessi generali che, in opposizione alla politica gollista a favore dell’indipendenza dell’Algeria, avevano preso il controllo della capitale del paese nordafricano. Il regime eccezionale, istituito per reprimere i nazionalisti algerini nel 1955, è stato dunque usato anche contro i loro oppositori nel 1960. Lo stato di emergenza è ulteriormente prorogato fino al 31 maggio 1963, in applicazione della legge referendaria del 13 aprile 1962 per contrastare il rischio di azioni terroristiche compiute dai membri dell’Oas, un’organizzazione clandestina francese vicina all’estrema destra, che difendeva tramite azioni violente la presenza in Algeria.

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L’ennesimo état d’urgence viene lanciato nel territorio della Nouvelle Caledonie, isola vicina all’Australia, in concomitanza al referendum che avrebbe consentito la scelta tra la permanenza nella Repubblica francese o la creazione di uno stato indipendente. Una nuova emergenza è dichiarata il 29 ottobre 1986 sul territorio delle isole di Wallis e Futuna, nel Pacifico meridionale, per un solo giorno. Il 24 ottobre 1987, invece, nella Polinesia francese a seguito di scontri tra scioperanti e forze dell’ordine.

L’8 novembre 2005 è una data che fa da spartiacque simbolico: Jacques Chirac proclama lo stato di emergenza nell’Île-de-France e nelle aree urbane adiacenti. Il motivo sono i disordini provocati dall’uccisione dei giovani Zyed Benna e Bounia Traoré a Clichy-sous-Bois che volevano sfuggire, come Nahel M. ucciso lo scorso 27 giugno, a un controllo di polizia. È la rivolta delle banlieue spesso evocata in questi giorni di analoghi tumulti. L’ultima dichiarazione dell’état d’urgence risale al 14 novembre 2015 (e dura fino all’anno seguente). È motivata dalle note azioni terroristiche allo Stade de France (attentato fallito) e dalle sparatorie a Parigi la sera del 13 novembre.

In cosa consiste questo regime speciale? In un assortimento di misure che forniscono alle autorità amministrative mezzi eccezionali. Si tratta in pratica di uno stato di crisi che rafforza i poteri delle autorità civili in materia di sicurezza personale e che, di conseguenza, limita le libertà pubbliche e individuali. Dovrebbe quindi essere un regime giuridico eccezionale che consente di adottare provvedimenti speciali, resi imperativi in determinate circostanze.
Dopo la recente esplosione della rivolta nelle banlieue e poi nelle città alcuni partiti di opposizione di destra ed estrema destra hanno chiesto la dichiarazione dello stato di emergenza. Per primo Les Républicains (LR). Poi il Rassemblement National, per voce del vicepresidente dell’Assemblée Nationale Sébastien Chenu. Infine da Éric Zemmour, che paventa l’inizio di una guerra civile.

Per adesso Macron ha disposto misure eccezionali e un enorme dispiegamento di forze dell’ordine ma ha evitato di dichiarare l’état d’urgence, nonostante ieri mattina avesse annunciato provvedimenti «senza tabù».