Cultura

Stati uniti: oppioidi, alcol, suicidi, come si distrugge la working class bianca

Stati uniti: oppioidi, alcol, suicidi, come si distrugge la working class biancaGlenn Close e Amy Adams in una scena di Elegia americana

L'indagine «Morti per disperazione e il futuro del capitalismo» di Anne Case e Angus Deaton, per il Mulino. Se la prima ondata della globalizzazione ha scosso i ghetti neri delle grandi città già alla fine degli anni Settanta, espellendo dal ciclo produttivo un numero importante di maschi adulti, nel corso degli ultimi quindici anni è toccato ai loro coetanei bianchi il cui precipitare verso il basso è stato ancor più traumatico in virtù del fatto che prima della crisi i loro «buoni» posti di lavoro nella grande industria garantivano oltre allo status, un buon salario e l’assicurazione sanitaria

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 20 aprile 2021

Prima che come ovunque nel mondo diventasse tragicamente sinonimo di Covid, la parola «epidemia» era stata utilizzata negli ultimi anni negli Stati uniti soprattutto per raccontare l’aumento record di morti per il consumo di oppiodi: più che la tradizionale dipendenza dalle «droghe», una fetta crescente del Paese che abusa regolarmente di medicinali acquistabili grazie ad un semplice certificato medico.

INSIEME ALLE MALATTIE epatiche legate all’abuso di alcol e ai suicidi è stata a lungo questa la causa che ha fatto registrare l’incremento più considerevole tra i motivi di decesso in America. E ad essere coinvolti sono stati prima di tutto gli appartenenti alla working class bianca, toccati proporzionalmente in maniera più significativa rispetto alle minoranze dagli effetti di lungo corso del disastro economico inaugurato dalla crisi dei subpimes e del mercato immobiliare nel 2006 e che in America va sotto il nome di Grande recessione.

Se la prima ondata della globalizzazione ha scosso i ghetti neri delle grandi città già alla fine degli anni Settanta, espellendo dal ciclo produttivo un numero importante di maschi adulti, spinti verso forme crescenti di emarginazione e comportamenti «a rischio», nel corso degli ultimi quindici anni è toccato ai loro coetanei bianchi il cui precipitare verso il basso è stato inoltre, se possibile, ancor più traumatico in virtù del fatto che prima della crisi i loro «buoni» posti di lavoro nella grande industria o comunque nel settore manifatturiero garantivano oltre ad uno status da «aristocrazia operaia», un buon salario e l’assicurazione sanitaria. Questo, mentre il tanto decantato boom dell’occupazione americana pre-Covid, durante le amministrazioni Obama e Trump, si è realizzato sulla base di «lavoretti» nei servizi, nell’assistenza, nella filiera alimentare che non offrono né i medesimi guadagni né tantomeno le stesse coperture sociali.

SPESSO INDAGATA nei termini di un’inquietudine identitaria di fronte alla demografia in crescita delle minoranze, ispanici su tutti, o di un cortocircuito della mascolinità tossica – quella fotografata dal sociologo Michael Kimmel nel celebre Angry White Men (2013) – e posta alla base dell’affermazione su larga scala del trumpismo, questa nuova fragilità che attraversa il campo della classe lavoratrice bianca degli Stati uniti è analizzata minuziosamente da due economisti dell’Università di Princeton, Angus Deaton – Nobel per l’economia nel 2015 – e Anne Case in Morti per disperazione e il futuro del capitalismo (il Mulino, pp. 358, euro 28).

I due studiosi hanno affrontato ciò che il New York Times recensendo il loro libro ha definito come «quello che sta distruggendo la classe operaia bianca» partendo da un’analisi comparata tra il benessere economico, il senso di realizzazione individuale e il numero di suicidi nelle società occidentali. Si sono così resi conto che negli Stati Uniti, nel periodo compreso tra il 1999 e il 2013 e tra coloro che svolgevano lavori manuali o saltuari e avevano a stento terminato le scuole superiori, vi fosse stato un incremento significativo dei casi. Il tasso di mortalità della parte più povera della popolazione bianca americana, in particolare nella fascia di età compresa tra i 45 e i 54 anni, è aumentato nel corso dell’ultimo decennio di un +134 ogni 100mila individui; e questo, come detto, oltre che per i casi di suicidio, in conseguenza di patologie legate all’abuso di alcol e droga, specie medicinali analgesici oppiacei.

 

«Nessun altro Paese sviluppato e ricco vive una condizione simile. Nell’ultimo mezzo secolo, dopo le morti dovute al consumo di tabacco, solo l’Aids aveva provocato qualcosa di simile», sottolineano Case e Deaton. L’emergere dell’insieme di queste «patologie sociali», che non trovano pari in nessun altro Paese dell’Occidente, è strettamente legato all’impoverimento, al declassamento e al progressivo scivolare verso una condizione di estrema marginalità di una parte significativa della classe lavoratrice bianca. «Molti bianchi che appartengono alla generazione del baby-boom, e che hanno perciò tra i 40 e i 50 anni, si sono improvvisamente resi conto che la loro vita non sarebbe più stata migliore di quella dei loro genitori», segnalano gli autori dell’indagine, aggiungendo come la perdita di ruolo e stabilità economica non ha solo favorito l’aumento degli stili di vita autodistruttivi, ma ha spesso minato anche la solidità della rete delle relazioni affettive e il circuito famigliare, favorendo fenomeni di solitudine e abbandono anch’essi già osservati nelle comunità nere nei decenni passati.

L’ORIZZONTE È QUELLO descritto da J. D. Vance in Hillbilly Elegy (Garzanti, 2014), un memoir divenuto anche un film disponibile su Netflix che descrive la discesa agli inferi di una famiglia proletaria del Kentucky che ha seguito la grande migrazione bianca verso i distretti industriali dell’Ohio, prima che questi si trasformassero nell’odierna Rust Belt: un tragico trionfo di sogni trasformati in ruggine tra povertà e sostanze. Un mondo, che dopo l’ubriacatura di Trump, Joe Biden dovrà avere ben presente se vuole davvero salvare l’anima della nazione (Soul of the Nation) come recitava lo slogan della sua campagna elettorale.

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