Stati uniti a un passo dall’attacco in Siria. Assad: sì a inchiesta
Medio Oriente Trump annuncia intervento in solitaria, con o senza voto dell’Onu: il cacciatorpediniere Cook verso la costa di Tartus, sede della principale base militare russa nel paese. Damasco invita a Ghouta l’Opac. Che risponde: «Andremo presto». Macron e May si schierano con Washington: si ripete il modello iracheno e libico
Medio Oriente Trump annuncia intervento in solitaria, con o senza voto dell’Onu: il cacciatorpediniere Cook verso la costa di Tartus, sede della principale base militare russa nel paese. Damasco invita a Ghouta l’Opac. Che risponde: «Andremo presto». Macron e May si schierano con Washington: si ripete il modello iracheno e libico
Aerei da guerra russi sorvolano un cacciatorpediniere statunitense lungo la costa siriana, il presidente statunitense cancella il viaggio a Lima per il vertice delle Americhe per darsi il tempo di decidere che fare di Damasco, i vertici iraniani minacciano di rappresaglia Israele dopo il raid sulla base siriana T4 a Homs. Gli ingredienti per lo scoppio – o meglio, la devastante escalation – del conflitto globale siriano ci sono tutti.
Le prossime ore ne definiranno i contorni: la Casa bianca interverrà contro il presidente siriano Assad, da capire c’è solo la misura. Un attacco «simbolico», come quello di un anno fa alla base di Shayrat (dove comunque morirono 16 persone, 9 civili) o qualcosa di più, in grado di scatenare uno scontro vis-à-vis con la Russia.
Un intervento diretto, perché «indiretto» è in piedi fin dal 2011 tramite i programmi di Cia e Pentagono di finanziamento e armamento delle opposizioni e la creazione ex novo di milizie anti-Assad.
Il cacciatorpediniere Usa Donald Cook ieri si è avvicinato alle coste siriane, all’altezza di Tartus, sede della principale base russa nel paese. A bordo, dicono fonti del Pentagono, 60 missili Tomahawk (un anno fa ne furono lanciati 59). A bassa quota, sopra la Cook, sarebbero volati caccia russi, azione di disturbo che il Pentagono ha smentito.
Guerra di nervi che potrebbe tradursi in qualcosa di più, come annunciato da Washington e Parigi: in Consiglio di Sicurezza l’ambasciatrice Usa Nikki Haley, falco dell’amministrazione Trump, ha ribadito l’intervento in solitaria, qualsiasi sia il voto dell’Onu chiamato a esprimersi ieri sera su tre risoluzioni (due russe, una Usa: attesi voti incrociati) sul lancio di un’inchiesta sull’uso o meno di gas da parte del governo siriano a Ghouta.
Damasco, da parte sua, ha messo in allerta per 72 ore le sue forze armate e le basi militari nelle province di Sweida, Aleppo, Latakia e Deir Ezzor e si è detta pronta a collaborare con l’Opac (Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche) per un’indagine che verifichi l’effettivo utilizzo di gas sulla principale città della Ghouta orientale, Douma (secondo il fronte anti-Assad volto a costringere all’accordo di evacuazione il gruppo salafita Jaysh al-Islam, intesa poi siglata domenica scorsa). L’Opac risponde: presto una squadra andrà in Siria per compiere le indagini.
Un copione simile a quello del 2013 quando l’allora presidente Obama fu sul punto di attaccare la Siria, fermato dalla diplomazia russa e il via libera di Damasco a smantellare l’arsenale chimico. Oggi la situazione si ripete, quasi identica.
A cambiare è l’equilibrio di poteri che nel frattempo si è definito in Medio Oriente: con Mosca che detta l’agenda regionale e Assad che recupera terreno, l’asse Usa-Israele-Arabia saudita ha un obiettivo più grosso, la riduzione dell’Iran a potenza di secondo piano, passando per l’alleata di Teheran, la Siria.
Le parole di Haley al Palazzo di Vetro, lunedì, hanno fatto naturale seguito a quelle di Trump. Damasco è nel mirino per colpire i suoi sponsor. «Non possiamo trascurare il ruolo della Russia nel proteggere il regime siriano – ha detto Nikki Haley – La storia registrerà questo momento come quello in cui il Consiglio di Sicurezza ha fatto il suo dovere o quello in cui ha dimostrato il suo assoluto e completo fallimento. Qualunque sia il caso, gli Stati uniti risponderanno».
A smuovere le «coscienze» di Trump e Haley è il presunto attacco chimico su Douma (come se le armi convenzionali non uccidessero comunque e in assenza di un’effettiva indagine, come accaduto per l’Iraq nel 2003).
La Russia insiste: le ispezioni condotte non hanno trovato «tracce di agenti tossici o vittime con sintomi di avvelenamento», i rapporti degli Elmetti bianchi (più che controversa protezione civile, operativa solo nelle zone di opposizione e finanziata dal fronte anti-Assad) sono «un tentativo di far deragliare il cessate il fuoco».
Ma è chiaro a tutti che il problema non è il gas. Che Assad lo abbia usato o meno, la comunità internazionale avrebbe potuto muoversi prima a fronte degli oltre 1.600 morti di Ghouta in quasi due mesi, uccisi dal governo e dalle opposizioni. Il fine è un altro: limitare l’influenza russa e iraniana in Siria balcanizzandola, facendo cadere il governo per aprire a faide interne peggiori delle attuali.
In prima fila, dietro Trump, ci sono la Francia di Macron e la Gran Bretagna di May (con alle spalle l’esperienza libica di Sarkozy e quella irachena di Blair, identico modello di frammentazione di due Stati-nazione). Ieri l’esercito di Sua Maestà ha discusso l’apporto all’attacco: sottomarini, jet Tornado Gr4 o aerei di ricognizione non armati. Macron ha paventato raid francesi contro le «capacità chimiche» di Damasco.
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