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Stati di grazia e contraddizioni del football postmoderno

Stati di grazia e contraddizioni del football postmodernoAzione da Real Madrid Barcellona 3-1, finale di Champions League

Sport Il filosofo inglese Simon Critchley si interroga sul mondo del pallone nel volume «A cosa pensiamo quando pensiamo il calcio»

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 13 giugno 2018

Subito dopo la debacle in Champions league e nell’attesa dei Mondiali di Russia, il filosofo inglese Simon Critchley s’interroga sulla sua smodata passione per il Liverpool e il football in generale che occupa un posto importante nella sua vita sebbene gli annulli totalmente le facoltà critiche. Fa ricorso agli insegnamenti di Gadamer e Sartre, Nietzsche e Husserl per delineare una brillante poetica dell’esperienza calcistica, basata sulla fenomenologia, ragionando di spazio e tempo, stupidità e magìa, nel suo curioso libro A cosa pensiamo quando pensiamo il calcio (Einaudi, pg.170, euro14). Innanzitutto la contraddizione profonda del football odierno tra l’essenza del calcio che è associazione, azioni collaborative, socialismo, prassi collettiva e la realtà materiale miliardaria con l’assoluta predominanza del denaro (e dei criteri imprenditoriali però ogni tanto, vivaddio, c’è un Leicester o un’Islanda) dai club più famosi a quel corrotto pantano multinazionale chiamato Fifa. Critchley mette insieme nonni, genitori e figli maschi (ma il genere femminile sta avanzando rapidamente), memoria condivisa, l’identità locale e nazionale, partite epiche dei Reds e solenni bastonate (pure le due terribili tragedie dell’Heysel e di Hillsborough).

E poi il fenomenale gioco palla a terra in velocità e la linea di difesa alta, l’importanza dei fondamentali e il formarsi del gruppo, la comunione rituale del teatro antico greco e la tonalità emotiva del tifoso (documentandole pure con 35 significative foto in biancoenero). «Possiamo guardare la più elettrizzante delle partite – scrive Critchley, collaboratore del Guardian e autore pure di un fondamentale saggio su David Bowie – eccitante al punto da spaventarci e muoverci a compassione, e poi triplice fischio, fine, e si torna alle nostre vite, al lavoro, a tagliare l’erba del prato, farsi una tazza di tè e controllare Facebook».

Niente cambia, ci dibattiamo tra lo Spielraum (il gioco di spazio, abitare lo spaesamento) e l’Augenblick (il battito di ciglia, l’istante in cui ci liberiamo dell’ordine stabilito), l’idolo Bill Shankly e il geniale Johann Cruyff. L’analisi celebra il ruolo fondamentale del guardare (e forse prima, giocare) le partite di pallone nella nostra quotidianità postmoderna e si fionda ad esaltare la persuasività della competenza calcistica, delle discussioni tra tifosi e avversari, di battaglie verbali tra emeriti sconosciuti e commentatori avveduti. Passando per Zidane e Liverpool-Borussia Dortmund, la vicinanza territoriale e culturale tra Jurgen Klopp e Martin Heidegger, le intuizioni profonde del pubblico sugli spalti.

E la nostra partecipazione al match, tra cori e canti, scatti all’inpiedi e mani nei capelli, andando verso l’estasi percettiva, qualcosa di simile all’esperienza dell’incanto, durante la quale ci eleviamo al di sopra del quotidiano per raggiungere un istante estatico, evanescente e collettivo, una lieve trasfigurazione dei sensi, uno stato di grazia assoluta e felice.

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