Stati di grazia e contraddizioni del football postmoderno
Sport Il filosofo inglese Simon Critchley si interroga sul mondo del pallone nel volume «A cosa pensiamo quando pensiamo il calcio»
Sport Il filosofo inglese Simon Critchley si interroga sul mondo del pallone nel volume «A cosa pensiamo quando pensiamo il calcio»
Subito dopo la debacle in Champions league e nell’attesa dei Mondiali di Russia, il filosofo inglese Simon Critchley s’interroga sulla sua smodata passione per il Liverpool e il football in generale che occupa un posto importante nella sua vita sebbene gli annulli totalmente le facoltà critiche. Fa ricorso agli insegnamenti di Gadamer e Sartre, Nietzsche e Husserl per delineare una brillante poetica dell’esperienza calcistica, basata sulla fenomenologia, ragionando di spazio e tempo, stupidità e magìa, nel suo curioso libro A cosa pensiamo quando pensiamo il calcio (Einaudi, pg.170, euro14). Innanzitutto la contraddizione profonda del football odierno tra l’essenza del calcio che è associazione, azioni collaborative, socialismo, prassi collettiva e la realtà materiale miliardaria con l’assoluta predominanza del denaro (e dei criteri imprenditoriali però ogni tanto, vivaddio, c’è un Leicester o un’Islanda) dai club più famosi a quel corrotto pantano multinazionale chiamato Fifa. Critchley mette insieme nonni, genitori e figli maschi (ma il genere femminile sta avanzando rapidamente), memoria condivisa, l’identità locale e nazionale, partite epiche dei Reds e solenni bastonate (pure le due terribili tragedie dell’Heysel e di Hillsborough).
E poi il fenomenale gioco palla a terra in velocità e la linea di difesa alta, l’importanza dei fondamentali e il formarsi del gruppo, la comunione rituale del teatro antico greco e la tonalità emotiva del tifoso (documentandole pure con 35 significative foto in biancoenero). «Possiamo guardare la più elettrizzante delle partite – scrive Critchley, collaboratore del Guardian e autore pure di un fondamentale saggio su David Bowie – eccitante al punto da spaventarci e muoverci a compassione, e poi triplice fischio, fine, e si torna alle nostre vite, al lavoro, a tagliare l’erba del prato, farsi una tazza di tè e controllare Facebook».
Niente cambia, ci dibattiamo tra lo Spielraum (il gioco di spazio, abitare lo spaesamento) e l’Augenblick (il battito di ciglia, l’istante in cui ci liberiamo dell’ordine stabilito), l’idolo Bill Shankly e il geniale Johann Cruyff. L’analisi celebra il ruolo fondamentale del guardare (e forse prima, giocare) le partite di pallone nella nostra quotidianità postmoderna e si fionda ad esaltare la persuasività della competenza calcistica, delle discussioni tra tifosi e avversari, di battaglie verbali tra emeriti sconosciuti e commentatori avveduti. Passando per Zidane e Liverpool-Borussia Dortmund, la vicinanza territoriale e culturale tra Jurgen Klopp e Martin Heidegger, le intuizioni profonde del pubblico sugli spalti.
E la nostra partecipazione al match, tra cori e canti, scatti all’inpiedi e mani nei capelli, andando verso l’estasi percettiva, qualcosa di simile all’esperienza dell’incanto, durante la quale ci eleviamo al di sopra del quotidiano per raggiungere un istante estatico, evanescente e collettivo, una lieve trasfigurazione dei sensi, uno stato di grazia assoluta e felice.
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