In questi giorni del braccio di ferro con la Lega per l’indagine cui è sottoposto Armando Siri, Luigi Di Maio ha non fatto altro che citare il caso del presidente dell’assemblea capitolina Marcello De Vito: «Ci ho messo 30 secondi a cacciarlo dal M5S», dice il capo politico grillino per marcare la differenza da Matteo Salvini.

Ma le cose non sono così semplici, perché De Vito, che si trova nel carcere di Regina Coeli ormai da 5 settimane, non ha nessuna intenzione di levarsi di torno. De Vito non si è mai dimesso e il testo unico sugli enti locali prevede una procedura abbastanza complicata per la rimozione del presidente del consiglio comunale. Ieri, dopo giorni di silenzio e dopo essersi avvalso della facoltà di non rispondere anche davanti ai magistrati all’interrogatorio di garanzia, il grillino più votato alle ultime elezioni comunali ha preso carta e penna e scritto una lettera di quattro pagine. Si rivolge a Virginia Raggi e ai consiglieri comunali della maggioranza grillina in Campidoglio, ma non nasconde riferimenti polemici a Di Maio, che nella lettera dal carcere chiama semplicemente «il leader». Non riconosce il modo in cui è stato espulso. «ll nostro codice etico – scrive – prevede l’espulsione dall’M5S solo in caso di condanna e non si presta ad opinabili interpretazioni a seconda dei casi, ad personam o, peggio, all’arbitrio del nostro leader».

E proprio a proposito di Di Maio polemizza con il modo in cui vengono formulate le consultazioni sulla Piattaforma Rousseau: «In questo tempo – scrive ancora De Vito – mi sono chiesto cosa potrebbe decidere il nostro leader per se stesso, ove fosse sottoposto ad un giudizio: sicuramente proporrebbe un quesito ad hoc, come quello ideato sul caso Salvini-Diciotti, da sottoporre al voto online». «Considero privo di presupposti qualsiasi atto che mi abbia privato di qualcosa -si legge ancora nella missiva – Sia esso la libertà personale, la carica (anche in via temporanea), la stessa iscrizione dagli M5S. Darò tutte le mie forze per tutelare la vita della mia famiglia e la mia». De Vito dice di avere «provato rabbia e delusione per le parole di abbandono degli ‘amici’» e per la «narrazione mediatica di questa vicenda giudiziaria» che giudica «violenta, infamante, squilibrata e iniqua».

L’inchiesta che lo riguarda è legata alla cementificazione di Tor di Valle che dovrebbe accompagnare la costruzione del nuovo stadio della Roma e ad altri nodi urbanistici come la costruzione di un albergo di lusso alla stazione di Trastevere, gli appetiti edificatori nella vecchia Fiera di Roma e la riqualificazione degli ex Mercati generali sulla via Ostiense. Sempre per la costruzione della grande opera di Tor di Valle, nei giorni scorsi si è appreso che Virginia Raggi è indagata.

L’inchiesta, formalmente distinta da quella che ha portato agli arresti di De Vito, investe le procedure con le quali è stato pubblicato il progetto per il nuovo stadio della Roma: Raggi avrebbe evitato di sottoporlo al consiglio comunale.

L’accusa a De Vito, dal canto suo, ipotizza l’attivismo del presidente d’aula per agevolare il progetto. Nella maggioranza grillina in Campidoglio circolavano dubbi, cosa che avrebbe potuto spingere anche la sindaca a risparmiarsi il passaggio in l’assemblea. Il giudice per le indagini preliminari ha deciso che entro sessanta giorni i pubblici ministeri dovranno completare le indagini su Raggi: l’ipotesi di reato è abuso d’ufficio. Intanto, De Vito, intanto, ha chiesto tramite i suoi avvocati di essere sentito dai giudici. Chissà che la lettera ai suoi colleghi non sia solo un antipasto.