Una fila di donne sdentate dall’età indefinibile, avvolte in vecchi sari sudici e sfilacciati, di ritorno dalla raccolta del tè sulle verdi colline di Candy nel cuore dello Sri Lanka, sono un’immagine difficile da dimenticare. Paria nella loro tradizione, ancora prima che nelle regole feroci del mercato e dei salari, sono sempre state lo specchio di un Paese di forti diseguaglianze nelle quali la manina dell’Impero di Sua Maestà, convinta che immigrati indù avrebbero lavorato meglio dei nativi, aveva inserito a forza intere famiglie per far fiorire il commercio di quella pianta, la Camellia Sinensis, che lo scozzese James Taylor nel 1967 aveva iniziato a coltivare su un fondo di 7,5 ettari. Disegnando così il futuro della Perla dell’Oceano indiano – lo Sri Lanka – come quello di un Paese che nel 2021 esportava quasi un quarto del tè del pianeta, secondo solo alla Cina e prima del Kenya e dell’India.

DIFFICILE DIRE COSA SARÀ OGGI di questa enclave indù importata dall’Impero britannico tra 19mo e 20mo secolo dalle regioni Tamil dell’India per lavorare nelle piantagioni di caffè, gomma e naturalmente tè. Paria in India e paria nello Sri Lanka da sempre, oggi sono probabilmente una delle comunità srilankesi che paga il prezzo più alto di una crisi finanziaria e politica che ha portato Colombo a dichiarare in primavera fallimento.

Difficile che possa far molto il prestito concordato ieri tra il Fondo monetario e il governo dello Sri Lanka, un esecutivo nato dalla dipartita della famiglia al potere – i Rajapaksa – sull’onda di proteste che non si sono ancora spente da che il Paese è sprofondato nel perverso ciclo del debito estero che lo ha lentamente strangolato. Oltre 50 miliardi di dollari sui quali Colombo non riesce nemmeno a pagare gli interessi e che vedrà nei prossimi quattro anni un’iniezione di quasi tre miliardi di dollari del Fmi per far fronte alla crisi. Con un costo di lacrime e sangue sottoscritto ieri nel capitolato che impegna Colombo a restituirli e a seguire i dettami del Fondo.

ACCANTO ALLE LAVORATRICI del tè, quelle del tessile non se la passano sicuramente meglio e la crisi le ha costrette a scegliere tra disoccupazione e prostituzione. Secondo Stand Up Movement Lanka (Suml) – che promuove i diritti di lavoratori e lavoratrici, migranti e prostitute – la crisi ha visto bordelli improvvisati spuntare in tutto il Paese, con un aumento del 30% della prostituzione negli ultimi mesi. Perché, dicono gli attivisti, le donne qui sono costrette a diventare prostitute per vivere in luoghi che si spacciano per centri benessere. Le testimonianze raccolte dal movimento dicono che questo è l’unico modo per fornire alle proprie famiglie tre pasti al giorno. Una scelta obbligata, dovuta alla chiusura o alla riduzione dei salari nel settore tessile e confermata anche da un’inchiesta del giornale locale The Morning.

D’altro canto le occasioni di lavoro sono sempre meno, specie per le donne: l’agricoltura, un settore chiave dell’economia, ha visto scendere i raccolti anche del 50% dopo che l’allora presidente Gotabaya Rajapaksa aveva vietato l’importazione di fertilizzanti chimici nel maggio 2021 (non certo per una scelta ecologica come qualche poco avveduto analista ha sostenuto).

Secondo la Federazione internazionale della Croce e della Mezzaluna Rossa (Ficross) la crisi economica in Sri Lanka si sta trasformando in una delle peggiori crisi umanitarie del Paese da decenni, con 6,7 milioni di persone – quasi un terzo della popolazione – che ora hanno urgente bisogno di assistenza umanitaria. 2,4 milioni di srilankesi si trovano poi in una situazione di estrema gravità per il costo vertiginoso dei beni di prima necessità.

MILIONI DI FAMIGLIE – dice il suo ultimo aggiornamento – affrontano carenza di cibo, carburante, gas da cucina, forniture essenziali e medicinali mentre l’impatto umanitario della crisi economica continua a moltiplicarsi. Sono gli stessi dati della più recente valutazione del World Food Programme e della Fao, secondo le quali un’inflazione alimentare record del 90% rende inaccessibili anche prodotti di base come il riso con un aumento del costo medio mensile di una dieta giusta che è cresciuto del 156% dal 2018. Secondo il Wfp servono almeno 63 milioni di dollari per far fronte alla crisi alimentare dei prossimi mesi.

La crisi viene da lontano: il Covid, che ha spazzato via gli introiti del turismo, e la spirale di un debito ormai incontrollabile dovuto a prestiti bilaterali (Cina e India soprattutto) e all’incauta emissione di titoli del tesoro accaparrati dai Fondi internazionali con tassi di rientro insostenibili. Poi è arrivata la mazzata della guerra in Ucraina con l’aumento delle fonti energetiche tradottosi in file interminabili alle pompe di benzina.

 

Colombo, 30 agosto 2022, protesta contro il nuovo governo dopo la cacciata del vecchio (Ap)

La ricetta, alla fine, l’ha dettata ieri, dopo diversi giorni di contrattazione, il Fondo monetario, in pessimi rapporti con la famiglia Rajapaksa, ma a cui ha dovuto ricorrere Ranil Wikremesinghe, il nuovo presidente (e ministro delle Finanze), nominato dal precedente (fuggito all’estero) e non meno indigesto a una piazza che solo in parte è tornata a incrociare le braccia dopo le manifestazioni oceaniche che hanno costretto Gotabaya Rajapaksa alla fuga in luglio. Fondo e autorità di Colombo hanno siglato un documento “per sostenere le politiche economiche dello Sri Lanka con un accordo di 48 mesi nell’ambito dell’Extended Fund Facility (Eff) di circa 2,9 miliardi di dollari”.

IL PREZZO? In sintesi: “Aumentare le entrate fiscali per sostenere il risanamento fiscale… riforme fiscali che rendano più progressiva l’imposta sul reddito delle persone fisiche e l’ampliamento della base imponibile per l’imposta sul reddito delle società” con un avanzo primario previsto del 2,3% del Pil entro il 2025; “introduzione di prezzi basati sul recupero dei costi per carburante ed elettricità per ridurre al minimo i rischi fiscali derivanti dalle imprese statali” (i Rajapaksa avevano introdotto dei sussidi su alcuni beni tra cui il carburante); una riforma della Banca centrale, risanamento del bilancio e una politica di stabilizzazione di prezzi, ricostruzione delle riserve estere, trasparenza, lotta alla corruzione. E, aggiunge l’accordo, scelte per “mitigare l’impatto dell’attuale crisi sui poveri e sui vulnerabili aumentando la spesa sociale e migliorando la copertura e il targeting dei programmi di ammortizzatori sociali”.

Parole difficili da mettere in pratica se si vogliono davvero raggiungere gli obiettivi scritti appena sopra. Qualcosa però potrebbe aiutare.

Il turismo potrebbe riprendere gradualmente mentre i russi sembrano orientati a dare una mano visto che sono sempre in cerca di consensi che si traducono in voti all’Assemblea generale. Anche India e Cina, che pur si guardano in cagnesco, sono disponibili a rivedere la loro politica del debito. Infine gli organismi internazionali che inietteranno denaro e beni per tenere la crisi sotto controllo. Ma ce ne sono altre che bussano alla porta: l’emergenza alimentare in Africa o quella in Afghanistan che ha numeri ancora più alti di quella srilankese. Senza contare i costi della guerra in Ucraina che rischiano di sottrarre risorse alla solidarietà.

Restano le rimesse dei migranti che, negli ultimi anni, sono stata l’unica costante su cui far conto in un Paese dove cresce la voglia di andarsi a cercare altrove una vita migliore.