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Gianfranco Spadaccia: «Vi racconto Pannella, il mio leader»

Gianfranco Spadaccia: «Vi racconto Pannella, il mio leader»Gianfranco Spadaccia e Marco Pannella

Partito Radicale «Seppe costruire un'unità a sinistra "a egemonia laica", quando il mondo dei post comunisti era a pezzi. Parlò ai cattolici da "credente in altro", e il suo anticlericalismo non era antireligioso»

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 20 maggio 2016

Raccontare Marco Pannella in uno spazio finito non si può. Tanto più per chi, come Gianfranco Spadaccia, 81 anni, tra i fondatori e storico dirigente del Partito Radicale, con lui è cresciuto e si è formato, intrecciando lotte, destini, passioni politiche e amori per oltre tre quarti della propria esistenza.

Cosa è stato per lei Marco Pannella?

Innanzitutto un grande amico. Una persona che ha avuto molta importanza nella mia formazione complessiva, nella mia personalità: lui aveva 23 anni e io 18 quando ci siamo conosciuti. E un leader politico. Molti dicono carismatico: certamente aveva un grande carisma, ma pochi come lui sapevano parlare agli studenti come ai suoi coetanei, e aggregare gente attorno a battaglie politiche impervie, difficili da affermare prima ancora che da vincere. E’ stato il mio leader politico: senza di lui, battaglie a cui ho felicemente contribuito e che ho onorato con il carcere e con gran parte della mia vita, non si sarebbero potute combattere.

Senza di lui il Partito Radicale sarebbe quello che è oggi?

No. Senza Pannella e senza il gruppo che, nei sette anni del “Mondo” di Mario Pannunzio (settimanale politico fondato nel ’49, da cui nel ’55 nacque il Partito Radicale, ndr) , si spinse oltre e che temerariamente decise di portare avanti quell’idea, il Partito Radicale non sarebbe nato. Ma Pannella non ce l’avrebbe fatta, senza quel gruppo di cui era leader: Bandinelli, Mellini, Teodori, Giuliano e Aloisio Rendi, io e altri che mi scuseranno se oggi dimentico di citare. Eravamo il gruppo dirigente della sinistra radicale. Poi a metà degli anni ’60 si aggiunse Loris Fortuna che presentò la prima legge sul divorzio. Ed è singolare che questo deputato socialista, friulano, trovò interlocutori e compagni, anziché nel suo partito, tra i radicali. E fu dentro il nostro partito che nacque l’idea della Lega italiana per il divorzio. Senza Marco non avremmo avuto la capacità nemmeno di tentarla, quella strada.

La sua leadership è sempre stata riconosciuta dentro il partito, ed è davvero rimasta inalterata negli anni?

Lo fu fin dall’inizio. L’Unione goliardica italiana, di cui era leader insieme a Franco Roccella e a pochi altri, non aveva nemici a sinistra perché anche i comunisti ci stavano dentro. Era, per usare una categoria gramsciana, un’unità di sinistra a egemonia liberaldemocratica e laica. In un Paese in cui la sinistra era frammentata e divisa, e in cui qualsiasi idea di egemonia laica era stata seppellita sotto l’accordo dell’articolo 7 della Costituzione sui Patti lateranensi. La battaglia che combatteva Marco, e noi con lui, era contro l’unità politica dei cattolici. Quindi non con l’anticlericalismo ma facendo riferimento alla rivista Esprit, al personalismo di Maritain, al comunitarismo di Mounier, a Bernanos, a Mauriac: cioè a quella cultura cattolica minoritaria degli anni ’40 e ’50 che poi diventa determinante nel Concilio. Pannella li citava negli anni ’50 quando in Italia quei testi erano quasi banditi.

Furono anni di scontri durissimi tra comunisti e radicali, ma anche di incontri. Molto tempo dopo però Pannella, da liberale e liberista quale era, anche nel campo della politica economica, si ritrovò spesso più vicino a Berlusconi che agli eredi di quella sinistra, è così?

Sono convinto che nella polemica tra Croce e Einaudi, Pannella era dalla parte di Croce. Poi negli anni ’90 effettivamente rivalutò Einaudi perchè pensava ci volesse una scossa liberalizzatrice. Tuttavia la concezione del liberismo che aveva Marco – Bertinotti lo ha capito perfettamente – non aveva nulla a che fare con la finanziarizzazione dell’economia, perchè il liberalismo economico e einaudiano presuppongono regole. E’ esattamente il contrario della deregulation. E quando Occhetto fece la sua svolta della Bolognina, Marco dialogò con lui per due o tre anni, presentando a Catania, all’Aquila e a Teramo, la sua città, liste civiche che andavano nella stessa direzione. Ma poi quando nel ’93 e ’94 scoppiò Mani pulite il Pds mutò rapidamente la scelta delle alleanze: invece di guardare a Pannella, i post comunisti guardarono a Orlando, che con Marco e la concezione radicale dei diritti era incompatibile. I rapporti con i socialisti si sono rotti sul proibizionismo, con Occhetto sul caso Tortora. Certo, con Berlusconi Pannella tentò seriamente l’alleanza su questioni come il presidenzialismo e i collegi uninominali ma il Cavaliere fece il Porcellum e si rivelò il peggiore avversario dei sistemi elettorali più democratici. Quel tentativo di accordo è durato tre mesi, non di più, ma gli ha bruciato i rapporti con la sinistra. Dopodiché è vero che non demonizzava nessuno: per lui esisteva solo il diaologo per il cambiamento che si vuole. E bisogna riconoscere che quel dialogo con Berlusconi consentì un’impennata dei diritti umani negli anni ’90, quando cominciano a costruirsi i presupposti per il Tribunale penale internazionale o la moratoria della pena di morte. Marco è stato il leader dei diritti civili e umani e della democrazia, non solo in Italia.

Come nasce la scelta della nonviolenza?

Alla fine degli anni ’50 avevamo costruito una rete di sostegno al Fronte di liberzione algerino e di quanti in Francia si battevano per la fine del colonialismo in Algeria. Quando cominciano a scoppiare le bombe che ammazzano bambini e donne, non i parà che torturavano i combattenti algerini ma i bianchi nati e cresciuti in Algeria, ecco, credo che fu in quel momento che scegliemmo la nonviolenza. Poi, nell’incontro con Capitini e con la prima sana ventata di paura per la bomba atomica, si rafforza l’impegno contro l’idea liberale del tirannicidio, a favore invece della convinzione che bisogna mettere in gioco se stessi e la propria libertà. Quindi la nonviolenza, l’uso del corpo e i digiuni da un lato, e dall’altro la disobbedienza civile, diventano le nostre armi.

E Pannella entra in risonanza con il buddismo tibetano… Da lì la scelta transnazionale?

Noi siamo sempre stati iscritti al movimento federalista europeo, da ragazzini abbiano frequentato le case di Ernesto Rossi e Altiero Spinelli. L’idea di transnazionale europea e mondiale ha fatto sempre parte della nostra cultura, fin dai tempi dell’Algeria. Sentivamo vicini i cecoslovacchi e i musulmani, uiguri, tibetani, cristiani vietnamiti… Finché abbiamo avuto un gruppo parlamentare, prima che Veltroni e Berlusconi ce lo togliessero, eravamo i portavoce di queste richieste di democrazia nel mondo che approdavano al parlamento di Strasburgo e a Bruxelles. Mettevamo i nostri strumenti a disposizione. Purtroppo in occidente la ragione di stato prevarica lo stato di diritto.

Negli ultimi tempi, Pannella entra poi in particolare sintonia con Papa Bergoglio…

Gli anticlericali Bonino e Pannella furono ricevuti anche da Giovanni Paolo II, con il quale c’era grande distanza politica sulle quesioni di bioetica, e che tuttavia avevamo apprezzato quando andò in sinagoga a riconoscere i «fratelli maggiori» e quando fece appello per l’amnistia e l’indulto. E Marco andava a San Pietro a dialogare con Wojtyla sulla questione del sottosviluppo e della fame nel mondo. Anche Bergolio è stato un Papa dirompente. Il nostro anticlericalismo non è antireligioso ma al contrario è pervaso di religiosità laica: la religione della libertà di cui parlava Benedetto Croce nella Storia d’Europa. Pannella ha sempre rifiutato di essere definito non credente, diceva di essere «credente in altro».

Qual è l’ultima grande idea visionaria che ci lascia?

Forse «spes contra spem»: l’idea che la speranza presuppone intransigenza, duro impegno, per conquistarla. Essere e non averla. La speranza non va confusa con l’illusione.

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