Kamal Aljafari continua il suo lavoro di scavo nella memoria palestinese e israeliana confermandosi come una delle voci più radicali del cinema contemporaneo. Paradiso, XXXI, 108 (che fa riferimento alla Commedia di Dante Alighieri) è il nuovo tassello di una ricerca portata avanti da quasi vent’anni e di una filmografia che rielabora, fino a uno sfinimento necessario dentro il quale perdersi e ritrovarsi, materiali pre-esistenti da manipolare per ri-dare loro inedite prospettive. Accadeva in The Roof, del 2006, esordio nel lungometraggio del cineasta palestinese, in Port of Memory (2009), Recollection (2015), An Unusual Summer (2020). E accade in questa nuova perla di diciotto minuti che sarà in visione oggi alle 19 al cinema Arlecchino di Milano, alla presenza dell’autore, in concorso a Filmmaker Festival.
Questa volta Aljafari si basa su archivi di propaganda bellica israeliana degli anni Sessanta e Settanta, immagini che mostrano soldati impegnati in azioni di guerra nel deserto, nella preparazione degli attacchi e nel compimento di essi, per terra e in cielo, fino al riposo che segue le missioni eseguite. Ma Aljafari, ancora una volta, rende altro quello che sta all’origine, lo trasfigura, lo espone a una rilettura appassionata tanto politica quanto teorica. Ribadendo, senza proclami, che il suo cinema è un costante saggio sulla visione che si declina in ogni fotogramma. L’occhio è al centro della sperimentazione di Aljafari. Con Paradiso, XXXI, 108 sembra fare un film meno complesso dei precedenti, più «lineare». Sembra, ma non è così. Su quei filmati di guerra dell’esercito di Israele Aljafari compie un’operazione di straordinaria potenza spazio-temporale. E l’occhio, umano e meccanico, è ovunque, vero e proprio filo rosso che si srotola fra quelle scene di vita militare quotidiana. Ci sono gli occhi dei soldati semplici e dei comandanti intenti a predisporre manovre, i cannocchiali e altri strumenti da calibrare dentro i quali guardare cercando una posizione da mirare, da inquadrare, le bocche dei carri armati sono altri occhi che puntano gli obiettivi da raggiungere, e infine ecco quelli chiusi degli stessi soldati, addormentati nella notte.

ALJAFARI espone all’abisso della ripetizione i corpi che abitano le immagini. Non solo quelli dei soldati, dei carri armati, degli aerei, ma anche quello del territorio calpestato dall’avanzare dell’esercito. Quel pezzo di deserto assume così le sembianze di un set alieno, isolato, sul quale si ri-produce il gioco della guerra che Aljafari rende «autistico» nella sua ripetizione, in un infinito «girare in tondo». E allora quel set senza nome si fa «contenitore» di memorie filmiche, alcune avrebbero trovato espressione in anni successivi, le cui tracce paiono però già manifestarsi qui innescando un fertile cortocircuito extra-diegetico. Nel groviglio delle sovrimpressioni affiorano il Kippur di Amos Gitai, il western senza cavalli, la fantascienza nelle architetture degli armamenti, i Mad Max post-apocalittici. Non c’è più, grazie all’intervento di Aljafari, un tempo databile. Il regista ne crea uno del tutto cinematografico e sospeso che l’immagine del carro armato che scende da una collina legato a pesanti cavi e in una posizione che sfida le leggi di gravità esemplifica alla perfezione.

IN CONCORSO oggi a Filmmaker (ore 16.15, sempre all’Arlecchino) c’è anche il nuovo lavoro di ricerca del cineasta statunitense James Benning, The United States of America. Benning lo definisce uno «sguardo degli Stati Uniti al centro della pandemia di Covid» ed è, nella sostanza, un film che si avvicina all’installazione nel dedicare a ogni stato, in ordine alfabetico, che compone gli Usa (più quello potenziale di Porto Rico) un’inquadratura fissa di circa due minuti. Nessun dialogo (salvo qualche voce off recuperata da archivi). Il solo sonoro diretto. Un’esperienza contemplativa e sensoriale. Una catalogazione di ambienti dove l’uomo è relegato ai margini o fuori campo.