Tra pochi giorni la Corte Costituzionale si pronuncerà circa l’aiuto medico al suicidio e i suoi ambiti di legittimità. Per ricapitolare: la stessa Corte nel 2019, con sentenza 242, pur mantenendo valido il divieto di «aiuto al suicidio» (art. 580), aveva indicato un’area di «non punibilità» per chi presta aiuto, a condizione che il malato rientrasse in determinati criteri: l’essere affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che il malato stesso reputa intollerabili; ma anche «l’essere tenuto in vita da Trattamenti di Sostegno Vitali-Tsv». La sentenza 242 riguardava il caso del Dj Fabo, che si trovava in situazione di dipendenza da ventilazione artificiale: sulla base di ciò, Marco Cappato non fu incriminato per l’assistenza in una clinica svizzera.
Dal 2019 in avanti, di fronte alle concrete richieste di pazienti di essere aiutati a togliersi la vita, sono emerse difficoltà circa il ruolo, il significato, i possibili modi di intendere i «trattamenti di sostegno vitale» (Tsv). In mancanza di una legge per inadempienza del parlamento, i giudici si sono trovati di fronte a malati di pari gravità per condizioni di salute (malattia irreversibile), come pure di condizione soggettiva (sofferenze fisiche/psicologiche giudicate insopportabili): i quali però, sulla base di caratteristiche particolari delle loro patologie, non sono tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitali.

Per cogliere appieno la drammaticità umana e al tempo stesso la delicatezza giuridica della questione, basti ripercorrere la vicenda di Massimiliano, il caso da cui è partita l’ordinanza del gip di Firenze, Agnese Di Girolamo, per il giudizio di illegittimità costituzionale. Il malato è affetto da sclerosi multipla, con progressiva invalidità fino ad arrivare a una pressoché totale immobilità degli arti superiori oltre che inferiori. Da qui la sofferenza descritta come il sentirsi ingabbiato con la mente sana in un corpo che non funziona e la richiesta di essere assistito nel suicidio. Massimiliano però non è tenuto in vita da Tsv. Ecco allora la questione sollevata dalla giudice: a parità di altre condizioni (irreversibilità della malattia, intollerabilità delle sofferenze), la liceità dell’aiuto al suicidio finisce per dipendere dal fatto che la persona sia tenuta in vita da Tsv. Ma questo requisito, nella sua accidentalità, determina una irragionevole disparità fra pazienti in situazioni concrete sostanzialmente identiche. E la questione non può risolversi attraverso una diversa individuazione dei tipi di trattamento, poiché ciò non elimina la discriminazione alla base. La giudice chiede allora alla Corte che sia dichiarata illegittima la parte della sentenza 242 che subordina la non punibilità di chi agevola il suicidio alla circostanza che l’aiuto sia offerto a «persona tenuta in vita» da Tsv.

Nel procedimento di fronte alla Corte, la Società della ragione ha redatto una memoria come Amicus Curiae, a sostegno della tesi della gip di Firenze. Dalla particolare ottica della Società, impegnata a difendere i diritti (specie di uomini e donne più fragili), l’appoggio alla tesi di incostituzionalità del requisito dei Tsv procede in primo luogo dalla volontà di valorizzare le soggettività, questione tanto più eticamente pregnante trattandosi di persone in stato di grande sofferenza: la richiesta di ripensare il perimetro dell’area di non punibilità dell’aiuto al suicidio va in primo luogo inquadrata in relazione alla salvaguardia dell’area di autodeterminazione del paziente (e di dignità nel morire), nello spirito originario della sentenza 242: ampliare l’area di autodeterminazione del paziente oltre quella già sancita dalla legge 219/2017, ossia il diritto della persona ad accettare/rifiutare qualsiasi trattamento.