Landini: «Sono antifascista, avrei votato Macron. Ma sul lavoro va combattuto»
Intervista a Maurizio Landini «Il punto centrale del suo programma, su cui credo si scontrerà con il sindacato, è l’attacco alla contrattazione collettiva: come già avvenuto in Italia, in Spagna, in Inghilterra»
Intervista a Maurizio Landini «Il punto centrale del suo programma, su cui credo si scontrerà con il sindacato, è l’attacco alla contrattazione collettiva: come già avvenuto in Italia, in Spagna, in Inghilterra»
«Non c’erano alternative, visto che uno dei candidati in campo era fascista: fossi stato francese, al secondo turno avrei votato certamente Macron». Il segretario generale della Fiom Maurizio Landini, ricordando che «la Cgil è sempre stata antifascista», non ha dubbi sull’esito delle presidenziali francesi. Ma poi è altrettanto netto sul programma di governo del neo inquilino dell’Eliseo: «Per il sindacato europeo si rinnova la sfida contro le ricette liberiste: oltre che sbagliate, sono anche inefficaci. Basta guardare ai risultati del Jobs Act».
Dove era il mondo del lavoro nella sfida francese? Dalle analisi delle ultime elezioni, a partire dalla Brexit e dalla vittoria di Trump, emerge che gli operai, e i ceti più poveri, spesso si fanno incantare dalle sirene del populismo. Mélenchon ha avuto un buon risultato al primo turno, ma non era del tutto estraneo all’euroscetticismo. Che messaggio riceviamo da Parigi?
Più che populista, il partito di Marine Le Pen io lo definirei fascista. E credo che a determinare la vittoria di Macron sia stata la cosiddetta «alleanza repubblicana», scattata più volte nella storia francese per respingere chi viene percepito come nemico della democrazia. Detto questo, se analizziamo i numeri, vediamo che Macron ha preso 19 milioni di voti al ballottaggio, Le Pen 10,5 milioni, ma abbiamo 16 milioni di francesi che hanno scelto di consegnare scheda bianca o di astenersi. Questo denota una grossa crisi per i due partiti tradizionali – nessuno dei due è arrivato al ballottaggio – e nel contempo ci dice che una grossa fetta di persone non si sente rappresentata. Dovremo vedere chi prenderà la maggioranza nelle prossime elezioni legislative, quelle per l’Assemblea nazionale.
Le ricette liberiste del programma di Macron ovviamente non possono rappresentare chi lavora.
Macron è partito con il 23% al primo turno, ma per due anni e fino al 2016 era stato ministro: si è sfilato per non farsi imputare la responsabilità delle leggi varate sotto Hollande, che hanno portato il Partito socialista al minimo storico, fino quasi a farlo sparire. Il punto centrale del suo programma, su cui credo si scontrerà con il sindacato, è l’attacco alla contrattazione collettiva: come è già avvenuto in Italia, in Spagna, in Inghilterra, si punta a mettere in discussione i diritti fondamentali del lavoro, il ruolo della contrattazione collettiva e delle organizzazioni sindacali.
La risposta, anche sindacale, quindi deve essere europea?
La risposta per noi deve essere certamente europea, anche nell’azione che il sindacato può mettere in campo. Dobbiamo rivedere i trattati, a partire dal Fiscal compact, affrontare gli alti livelli di disoccupazione con nuove politiche di investimento, difendere e qualificare la contrattazione collettiva, includendo chi sta ai margini, come i disoccupati e i precari.
Un salario minimo per tutto il continente? La Ces, il sindacato unitario europeo, punta a standard unici per evitare il dumping.
È una strada, ma tenendo la barra sulla contrattazione. Quando Macron propone contratti aziendali che possano derogare alle leggi o alla contrattazione collettiva cosa mi sta dicendo? È l’Articolo 8 che qualche anno fa Sacconi introdusse in Italia: sono ricette che devono essere respinte, per andare verso legislazioni che invece tutelino la libertà delle persone che lavorano di approvare i contratti che li riguardano e di scegliere i propri rappresentanti sindacali. Dovremmo puntare, in Italia è il nostro obiettivo, a una legge che certifichi la rappresentanza di sindacati e imprese: a quel punto il minimo contrattuale potrà essere applicato a tutti, diventare valido per legge.
Quello che Renzi, dopo tre anni di governo, e nonostante le premesse iniziali, non vi ha mai dato.
I tre anni di governo Renzi hanno determinato che lui non è più al governo. Evidentemente quelle politiche, a partire dal Jobs Act, non avevano il consenso della maggioranza del Paese. E lo stesso Macron, come ho detto, ha preso le distanze dalle leggi del quinquennio di Hollande, nonostante per un periodo ne sia stato tra i principali protagonisti. A Renzi, se posso, vorrei suggerire di essere più cauto: vedo che paragona la sua percentuale alle primarie con quella del presidente francese alle elezioni generali. Ma come si fa a mescolare pere e mele? E ricordo che 1,2 milioni di voti alle primarie li ha presi anche Hamon, e tutti abbiamo visto che fine ha fatto al primo turno, con i socialisti al minimo storico.
Insomma, non si può riportare la situazione francese su quella italiana.
No, anche perché il maggiore movimento antisistema, i Cinquestelle, a differenza di quanto si è manifestato in Francia con Le Pen, non è fascista. Vedo che però nel nostro Paese c’è una pulsione antisindacale trasversale, che tocca quasi tutti i soggetti in campo, e proprio per questo si rafforza la necessità di un’azione autonoma e indipendente del sindacato. Con la Fiom e la Cgil ci siamo già mossi con i referendum su voucher e appalti, ottenendo risposta con una legge, e adesso lavoriamo per la Carta dei diritti universali del lavoro.
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