La famiglia di Wissam non aveva sue notizie dal 14 ottobre 2023. Quella notte, intorno alle 2, l’esercito israeliano ha sfondato la porta della loro casa e ha portato via Wissam, bendato, legato e spogliato. Non è la prima volta che accade, è stato arrestato tre volte dalla seconda Intifada, accusato di legami con un gruppo della sinistra palestinese. Stavolta è diverso: dal 7 ottobre le visite familiari sono sospese. Agli avvocati da qualche settimana è possibile comunicare con alcuni assistiti solo in videoconferenza. Con alcuni, non tutti.

Il 13 febbraio, nel primo pomeriggio, il telefono della moglie di Wissam ha squillato: «Volevo solo dirle che è vivo». Dall’altro capo c’era un uomo di Hebron. Era tornato libero il giorno prima. Funziona così: chi esce, si segna i numeri dei compagni di cella e di sezione e poi chiama i familiari per dire che stiano tranquilli, che sono vivi. Dimagriti, con barba e capelli lunghi, ma vivi.

Non è scontato. Negli ultimi quattro mesi e mezzo dietro le sbarre delle prigioni israeliane sono morti almeno otto detenuti politici da Cisgiordania e Gerusalemme est. Non si hanno notizie dei prigionieri di Gaza: fonti stampa israeliane negli ultimi giorni hanno riportato di svariati decessi tra gli arrestati durante l’invasione via terra, ma di numeri non ne esistono.

A OGGI SONO 9mila i prigionieri politici palestinesi, 6.220 gli arrestati dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre che ha ucciso 1.140 israeliani. In cella al momento si contano 70 donne, 200 bambini, 3.484 detenuti amministrativi (senza accuse né processo), 50 giornalisti, oltre cento studenti universitari.

Moltissimi vengono presi di notte, a casa; tanti altri in pieno giorno, ai checkpoint che spuntano ovunque per le strade cisgiordane: «È la combinazione di due novità: un numero maggiore di posti di blocco e il controllo ossessivo degli smartphone – ci spiega Mona Shatiye, esperta palestinese di diritti digitali – Basta una foto di Gaza o un like per compiere un arresto. Molti, quando devono spostarsi, lasciano i telefoni a casa o li ripuliscono dai gruppi Telegram e dalle app delle piattaforme social».

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Il sistema è stratificato da anni, al suo servizio l’utilizzo compulsivo delle nuove tecnologie, dalle app di profilazione dedicate all’esercito israeliano come Blue Wolf alle telecamere a riconoscimento facciale. «Sono installate in tantissimi checkpoint tradizionali e sui droni che sorvolano le città, è un sistema di sorveglianza multi-strato», continua Shatiye.

Gli effetti si accumulano: c’è chi preferisce non viaggiare, chi non usare lo smartphone per informarsi o tenersi in contatto con amici e familiari. Si isolano le comunità, dice Shatiye, e poi si isolano le persone. L’autocensura è immediata: «La legge sul terrorismo ora considera incitamento anche il mero consumo di contenuti che le autorità israeliane ritengono tali. Parliamo di lanci di agenzie o siti di informazione che riportano la cronaca di quanto avviene a Gaza o le violazioni commesse in Cisgiordania. Credo che l’obiettivo sia non solo limitarne la diffusione ma tentare di rendere inaccessibile la documentazione dei crimini di guerra commessi».

P. Z. LAVORA per una nota e rispettata ong che registra le violazioni dei diritti umani nei Territori occupati. Ha ricevuto due telefonate dello Shin Bet, i servizi segreti israeliani, a distanza di pochi giorni: gli intimavano di non pubblicare più niente sui social. Ha smesso. Non vuole tornare in prigione. Soprattutto adesso, con le carceri che sono gironi danteschi.

Per sapere cosa accade dentro si deve attendere che qualcuno esca fuori. «Dal 7 ottobre la Croce Rossa non è autorizzata a visitare le carceri – ci spiega l’associazione di tutela dei prigionieri politici palestinesi, Addameer – Le uniche informazioni giungono dai rilasciati e dai pochi avvocati che riescono a tenere videochiamate con alcuni prigionieri. Loro ne approfittano per dare informazioni importanti sui casi più critici: malati, feriti, morti». Raccontano della vita in carcere, del senso di abbandono. Pestaggi con bastoni e sbarre di ferro, visite mediche sospese, confisca di vestiti, libri, coperte, materassi, divieto a farsi la doccia.

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E LA FAME: «Prima erano previsti tre pasti al giorno a testa – spiega Addameer – Ora due: yogurt, una fetta di pane e pomodori a colazione e un po’ di riso e una salsiccia a cena. Non per tutti: in ogni cella servono meno piatti dei prigionieri effettivi, spesso la metà. Si condividono pasti già poveri». Chi riemerge, porta i segni della privazione e della violenza: molti detenuti ricompaiono dimagriti di decine di chili, con gli strascichi delle torture e dei pestaggi addosso, ossa rotte e cicatrici.

E poi le violenze sessuali. A denunciarle è stata due giorni fa l’Onu che ha registrato due casi di stupri di prigioniere di Gaza, altre decine di «forme multiple di abusi sessuali», perquisizioni corporali violente, pubblicazione delle foto online e casi di uomini picchiati sui genitali e minacciati di stupro dalle guardie carcerarie.