Festeggiare era vietato, hanno festeggiato lo stesso. In Cisgiordania nelle strade, a Gerusalemme est nelle case: le 33 donne e i 150 minori palestinesi, prigionieri politici scarcerati finora hanno gioito. Piangendo tra le braccia dei genitori, sventolando la bandiera palestinese per le strade delle loro città.

Un modo per dare sfogo alla rabbia individuale di incarcerazioni che in moltissimi casi non si reggevano né su accuse né a processi, e a una collettiva, quella di vedere Gaza massacrata mentre loro tornavano sull’asfalto.

QUELLA GIOIA le forze di sicurezza israeliane hanno provato a impedirla, lanciando gas lacrimogeni sulle famiglie in attesa fuori dalla prigione di Ofer in Cisgiordania, o a Gerusalemme est compiendo raid nelle case dei detenuti in via di rilascio.

Ma i maltrattamenti peggiori sono quelli lontani dalle telecamere, raccontati da chi è uscito. La versione è identica per tutti: dopo il 7 ottobre, condizioni di vita già terribili (lo dicono da decenni i rapporti di organizzazioni locali e internazionali) sono diventate insopportabili.

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Mohammed Nazal, 18 anni, ha una benda al collo che gli tiene su il braccio rotto. Racconta di un piatto di riso da dividere in dieci prigionieri, di pestaggi subiti e cure mediche negate: «Gli anziani erano lasciati a terra, io riuscivo a sopportarlo ma loro no. Non avevamo materassi né coperte».

Anche Khalil Mohamed Badr al-Zamaira ha 18 anni. È stato rilasciato domenica dopo due anni di prigione: «Due ragazzi sono arrivati da Ofer con le costole fratturate. Non riuscivano a muoversi».

«I maltrattamenti sono indescrivibili», ha raccontato un altro ragazzino, Omar al-Atshan. Lui era detenuto nel famigerato carcere del Naqab: «Le botte erano la routine. Acqua e cibo erano scarsi». Li hanno picchiati, aggiunge, anche il giorno del rilascio.

RACCONTA anche di un decesso nel suo carcere, Thaer Abu Asab, uno dei cinque uccisi dietro le sbarre dal 7 ottobre: «Aveva solo chiesto a una guardia se c’era la tregua. Lo hanno picchiato a morte. Abbiamo gridato aiuto, ma i dottori sono arrivati un’ora e mezza dopo. Era già morto».

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Osama Marmash, 16 anni, ad al Jazeera racconta di altri decessi per torture, stavolta a Megiddo. Lui stesso è ferito ai piedi e alla schiena. Prove giungono anche dai video «scappati» di mano ai soldati e girati sui social: detenuti spogliati, con le mani legate e la benda sugli occhi, umiliati e pestati.

Tutti dicono lo stesso: pochissimo cibo, nessuna cura medica. Le regole sono cambiate: due pasti al giorno non tre (uova e cetrioli) non sufficienti per tutti ma da dividere, celle sovraffollate per contenere il doppio o il triplo dei detenuti, ritiro delle coperte e di molti materassi. E ancora visite mediche e familiari sospese. Sospese pure le comunicazioni: a chi è stata rinnovata la detenzione amministrativa (custodia senza processo) non lo ha nemmeno saputo.

«Dopo il 7 ottobre, venivano ogni giorno a picchiarci, ci trattavano come i cani», il racconto di Ghannam Abu Ghannam a SkyNews. Minorenne, arrestato un anno fa per lancio di pietre ma mai processato, è tornato a casa nel quartiere gerusalemita di Silwan. Ha abbracciato forte la madre. Nessuna festa per lui.

COME NON LO è per i 133 palestinesi di Cisgiordania e Gerusalemme che sono stati arrestati nei primi quattro giorni di tregua: «Finché ci sarà occupazione, gli arresti non cesseranno, è una politica centrale dell’occupazione», dice Amany Sarahneh, la portavoce del Palestinian Prisoners Society. Le carceri non si svuotano mai.

Lo dice la lista dei 30 palestinesi rilasciati ieri: una è la giornalista Marwat al-Azza, di Gerusalemme. Era stata incriminata il giorno prima. Per molti lo scambio è solo una presa in giro.