La guerra tra Tel Aviv e Hamas si sposta anche nelle carceri. Il ministero della Pubblica sicurezza israeliano ha approvato questo giovedì una serie di «nuove misure repressive» nei confronti dei detenuti palestinesi che permette di «imprigionare detenuti anche in numero superiore alla capienza delle celle», con indicazioni anche per una «drastica riduzione per l’utilizzo di acqua, elettricità e cibo».

«Israele si sta vendicando con i prigionieri palestinesi all’interno delle sue carceri», ha affermato il presidente della Palestinian Prisoners Society, Daqoura Fares, che ha denunciato «brutali abusi contro centinaia di detenuti nelle ultime due settimane».

Per Fares la prigione del Negev è diventata come Abu Graib – creata dagli Stati Uniti in Iraq durante l’invasione del 2003 – vale a dire un centro di detenzione dove «quotidianamente vengono perpetrate barbarie e comportamenti atroci contro i prigionieri politici palestinesi». Testimonianze simili arrivano anche dalle carceri di Ofer, Megiddo e Beersheba.

Secondo quanto riporta Addameer – organizzazione non governativa palestinese che monitora le condizioni di detenzione dei prigionieri – Tel Aviv utilizza i detenuti politici come forma di «ritorsione e vendetta». Un appello è stato lanciato alla Croce Rossa Internazionale per il «rispetto dei diritti umani nelle carceri israeliane».

In queste ultime due settimane – indica Addameer – le autorità di Tel Aviv hanno cominciato ad utilizzare nuovi dispositivi di «disturbo ad onde sonore» – considerati cancerogeni – con l’obiettivo di limitare qualsiasi possibilità di contatto dei prigionieri con il mondo esterno e negare loro qualsiasi informazione sul conflitto. Apparecchi di nuova generazione che, emettendo un continuo segnale sonoro, producono un rumore assordante che provoca «forti mal di testa, malattie croniche e impedisce ai detenuti anche di dormire».

Un nuovo inasprimento del regime di detenzione, da parte del governo israeliano, che si va ad aggiungere alle altre forme di tortura già utilizzate: le continue deportazioni da un carcere all’altro, la privazione del sonno, il divieto di incontrare avvocati e familiari, le visite mediche solo per «gravi condizioni fisiche». Pratiche utilizzate anche nei confronti delle donne detenute – circa una sessantina – con l’obiettivo di «umiliare e mortificare la loro stessa condizione femminile».

Prima dell’operazione «Tempesta di al-Aqsa», il numero dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane era di circa 5300, in meno di due settimane con una campagna di arresti in tutta la Cisgiordania sono diventati oltre 10mila. Hamas aveva annunciato che la cattura di militari e cittadini israeliani aveva lo scopo di «ottenere il rilascio dei detenuti palestinesi».

La stragrande maggioranza dei quali sono in regime di detenzione amministrativa, una misura che permette a Israele di incarcerare qualsiasi persona, dissidente o attivista palestinese, per diversi mesi, rinnovabili all’infinito, e senza dover notificare nessuna accusa o capo d’imputazione. Una pratica di massa definita dalle ong che difendono i diritti umani come una «forma illegale di repressione politica».