Rendendo omaggio a una celebre canzone di Vasco Rossi, si intitola Un mondo meglio di così l’ultimo libro di Eros Francescangeli dedicato alla storia della sinistra rivoluzionaria in Italia dal 1943 al 1978 (Viella, pp. 364, euro 32). Frutto di anni di ricerche in archivi sparsi in tutta Italia, può essere considerato la più aggiornata e completa storia di un fenomeno che è stato oggetto di ricostruzioni spesso approssimative. Ne abbiamo discusso con l’autore, tra i fondatori del quadrimestrale Zapruder, rivista di storia della conflittualità sociale.

Nelle prime pagine una certa attenzione viene dedicata alla definizione del fenomeno, sfrondando aggettivazioni fuorvianti o incomplete e spesso usate come sinonimiche come: «sinistra extra-parlamentare; nuova; estrema; radicale; intransigente; anti-sistemica; antagonistica, etc». Cosa è stata allora la «sinistra rivoluzionaria» e chi ne ha fatto parte?
Erano quei soggetti politici che ritenevano che per realizzare una società di liberi e uguali non fosse percorribile, o comunque sufficiente, la strada del gradualismo riformista. Volevano insomma «fare la rivoluzione». Per questo penso che l’espressione «sinistra rivoluzionaria» sia, storiograficamente parlando, la più corretta. Peraltro fu utilizzata prima, durante e negli anni immediatamente successivi al 1968 come lemma auto-rappresentativo, prima che si affermasse il più “bonario” «nuova sinistra». Ma, differentemente dalla sfera anglosassone, in Italia il soggetto in questione non era “nuovo”: si richiamava a tradizioni culturali che avevano alle spalle decenni di storia: l’anarchismo, il consiliarismo, il marxismo-leninismo nelle sue molteplici varianti.

I capitoli dedicati alle esperienze post-45 sono forse tra i più innovativi. In particolare, la riflessione sulle organizzazioni che hanno aperto la strada alle mobilitazioni degli anni Sessanta. Assumendo questa prospettiva, si spiega che bisogna evitare interpretazioni «sessantottocentriche». Ci può spiegare cosa si intende?
Il discorso è articolato. In sintesi, pur riconoscendo l’enorme importanza del Sessantotto come cardine di questa storia (che attivò una serie di importanti processi aggregativi, tra cui anche quello de il manifesto), le organizzazioni della sinistra rivoluzionaria esistevano ben prima del 1968 e, qui in Italia, furono quelle che pianificarono e gestirono politicamente il Sessantotto studentesco e le proteste operaie dell’anno successivo. Due eventi-processo che “rimescolarono” gli assetti organizzativi precedenti a spese delle correnti più “tradizionali” (anarchici, bordighisti e trockisti ma anche operaisti).

Dalla ricostruzione emerge che lo sviluppo del filone operaista è stato uno spartiacque. Come mai?
Come reazione a fenomeni contemporanei (il cosiddetto neocapitalismo, gli eventi del 1956, la decolonizzazione, la rivoluzione cubana), nella seconda metà degli anni ’50, si svilupparono alcune culture politiche che “aggiornarono” tradizioni precedenti. Se l’anti-burocratismo libertario-comunista diede vita – grazie al contributo di Giulio Seniga, Arrigo Cervetto e Pier Carlo Masini – all’esperienza eterodossa di Azione comunista e l’antimperialismo marxista-leninista generò il filone terzomondista (grazie all’attività di Giangiacomo Feltrinelli), il consiliarismo degli anni ’20 si inverò in neo-operaismo. Grazie ai contatti con il gruppo francese di Cornelius Castoriadis, tale filone fu quello che riuscì a intercettare meglio di altri i disagi generazionali della gioventù nata a cavallo della Seconda guerra mondiale e – soprattutto – la voglia di riscatto del proletario-migrante. A riguardo sono emblematiche l’esperienza dei Quaderni rossi (promossa da Raniero Panzieri), di Classe operaia (dove spiccava la figura di Mario Tronti) e de Il Potere operaio di Pisa (in cui militò il gotha del Sessantotto italiano: Sofri, Della Mea, Luperini, Cazzaniga).

Il libro ha il pregio di non schiacciare la storia della sinistra rivoluzionaria esclusivamente su quella della violenza politica e della lotta armata. Le osservazioni su questi due elementi sono però puntuali e definiscono orizzonti strategici e culturali differenti. Può azzardare una sintesi?
Si può dire che la militanza rivoluzionaria a sinistra e l’opzione della lotta armata non furono fenomeni coincidenti e chi scelse la prima strada (che fu poi quella maestra) non risolse esclusivamente la propria militanza nell’uso della forza. Anzi, il grosso delle attività lambiva altri ambiti: l’ampliamento delle libertà individuali e collettive, la controinformazione, le vertenze sociali, la produzione culturale, la tutela dei diritti degli “esclusi”. Ma penso che debba altresì essere detto a chiare lettere che il fenomeno della lotta armata e l’esercizio della forza a vari livelli (dagli scontri di piazza agli «espropri proletari», dall’antifascismo militante agli attentati dimostrativi) furono parte integrante della storia della sinistra rivoluzionaria. Un non trascurabile sottoinsieme, insomma.