«Smettiamola di fare la guerra ai nostri mari»
Intervista Incontro con Alberto Luca Recchi, esploratore-fotografo internazionale e divulgatore, in occasione della Giornata mondiale degli Oceani, sabato 8 giugno
Intervista Incontro con Alberto Luca Recchi, esploratore-fotografo internazionale e divulgatore, in occasione della Giornata mondiale degli Oceani, sabato 8 giugno
All’origine della vita c’è il mare. Gli scimpanzé, nostri progenitori, derivano a loro volta dai pesci. Per questo non si sbaglia a dire che c’è un pesce in ognuno di noi: basta guardarsi le mani, sono pinne palmate. Se dichiariamo guerra al mare, come del resto abbiamo fatto, saremo noi stessi a pagarne il prezzo più alto».
Parola di Alberto Luca Recchi, esploratore del mare, scrittore, fotografo e grande conoscitore del mondo sommerso.
Se lo guardiamo dalla superficie, magari andandoci anche in barca, sentendoci per questo conoscitori ed esperti, il mare ci sembra sempre uguale. Ma solo chi si è immerso 50 anni fa, quando lo fa adesso può capire quello che è successo: un disastro. Per questo non amo più scendere sott’acqua, è come se andassi al capezzale di un malato per fotografarlo. Posso invece fare qualcosa di utile divulgando il grido di aiuto che il mare sta lanciando, facendo informazione soprattutto tra i giovani, che sono molto sensibili sui temi ambientali e hanno una marcia in più rispetto alla nostra generazione che invece il mare lo ha ridotto, nell’arco di 50 anni, nelle drammatiche condizioni in cui si trova oggi.
Nel 1998 e 1999 ha ideato e guidato le prime due spedizioni al mondo per documentare rispettivamente le balene e gli squali nel Mediterraneo, è l’unico italiano ad aver realizzato un libro fotografico per il National Geographic ed è anche l’unico italiano ad essere stato invitato a tenere una conferenza all’Explorers Club di New York il gotha degli esploratori del mondo. Nella Giornata degli Oceani dell’8 giugno, che messaggio lancerebbe per salvare il nostro mare?
Ne lancerei tre, uno sicuramente alla politica. Vorrei una norma che preveda l’obbligo di una targa sulle reti dei pescatori. Così quando vengono perdute o abbandonate gli armatori sarebbero obbligati ad andarle a riprendere, o comunque ad avvisare le autorità. Con questa semplice misura si abbatterebbe dell’80% la montagna di plastica abbandonata in mare che, se messa insieme, raggiunge dimensioni più grandi di Francia, Spagna e Italia messe insieme.
Gli altri due messaggi?
Uno ai consumatori: mangiamo basso nella catena alimentare, cioè pesci piccoli, che si riproducono molto e che impiegano poco tempo a crescere. Smettiamola di mangiare grandi predatori come pesci spada e squali. E informiamoci prima di comprare il pesce. In pochi forse sanno che l’Italia è il primo importatore europeo di carne di squalo e che, spesso a nostra insaputa, molti squali finiscono nei nostri piatti. Basti pensare alla razza, al palombo, alla verdesca, al gattuccio e molti altri. I grandi predatori hanno una funzione fondamentale: sono i registi degli equilibri marini e sono quelli che mantengono viva la salute di tutto l’ecosistema. Se c’è un pesce malato loro lo mangiano impedendo che l’epidemia si diffonda tra le altre specie.
La redazione consiglia:
In Italia parte una campagna per salvare il MediterraneoQuindi dobbiamo augurarci che gli squali tornino a popolare il mare?
Esatto, e infatti il terzo messaggio lo vorrei lanciare a chi amministra le zone costiere. La pinna di uno squalo vale molto più di una bandierina blu. Se si intravede al largo di una costa non bisogna spaventarsi ma esprimere grande soddisfazione. Significa che quel tratto di mare è davvero pulito e sano, perché nessuno squalo nuoterebbe in acque inquinate.
I predatori sono fortemente diminuiti anche a causa della pesca molto invasiva. Quelli che non finiscono nei nostri piatti hanno una vita difficile perché trovano molto meno cibo. Possiamo dire che la pesca, soprattutto quella industriale e a strascico, è uno dei principali fattori di distruzione del mare?
E’ proprio così. La pesca a strascico, in particolare è altamente distruttiva. E’ come andare in un bosco con un bulldozer per prendere lepri o cinghiali. Tanto più nel Mediterraneo, un mare piccolo che proprio per la sua ricchezza e biodiversità è tra i più sfruttati al mondo. Inoltre questo mare è circondato da molti paesi, che hanno regole diverse, e ognuno lo sfrutta a modo suo. I pescatori della Tunisia, ad esempio, non hanno certo le stesse regole europee che invece i pescatori siciliani, loro dirimpettai, devono osservare. Come quella delle maglie delle reti che in Europa devono essere da 40, mentre quelle dei nordafricani hanno maglie fittissime il che significa che quando strascicano tirano su di tutto.
E oltre alla plastica e allo strascico quali sono gli altri fattori che hanno fatto ammalare il Mediterraneo?
Le cause sono molte: oltre a quelle citate c’è l’acidificazione delle acque, il degrado delle coste, l’inquinamento chimico industriale, basti pensare che ci sono isole italiane, anche molto turistiche, che non hanno un depuratore.
Ma ci sono possibilità che la situazione migliori?
Io sono ottimista, il mare potrebbe rigenerarsi in pochi anni se smettessimo di sfruttarlo e di usarlo come una grande pattumiera. Ma certo dobbiamo invertire questo trend distruttivo e cominciare a vederlo non più come un terreno di caccia ma semmai come un vasto campo agricolo da coltivare e di cui prendersi cura. Dobbiamo trasformarci da cacciatori ad agricoltori del mare e cambiare la nostra prospettiva da ego-centrica a eco-centrica.
Se dovessimo parlare di soluzioni concrete?
Ho molta fiducia nella ricerca scientifica. Si potrebbe lavorare alla creazione di batteri ghiotti di plastica che possano fare grandi scorpacciate del principale inquinante del mare, ma anche continuare ad investire risorse sul pesce coltivato in laboratorio, quello che i detrattori definiscono «sintetico». Anche se l’Italia per ora è politicamente ostile allo sviluppo di questo settore, credo che mangiare le proteine animali senza uccidere esseri viventi sia l’unica strada da percorrere per non lasciare ai nostri figli il disastro ambientale che abbiamo generato. Ma anche la conoscenza è determinante. Non possiamo cambiare le cose se non le conosciamo.
A questo riguardo lei ha da poco ricevuto, lo scorso 10 maggio, il Premio Leonardo 2024 per la divulgazione scientifica, perché da oltre 30 anni fotografa e divulga la vita sotto al mare.
E’ un premio che mi ha fatto tremare le gambe, perché prima di me lo avevano ricevuto Rita Levi Montalcini e Margherita Hack. Una conferma però di quanto sia importante la cultura e la diffusione dei saperi, soprattutto tra le giovani generazioni. Sono loro infatti che possono cambiare il mondo. Noi dovremmo sentirci obbligati a raccontare i danni che abbiamo fatto, senza fare sconti alla verità. Questo, almeno, glielo dobbiamo.
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