«Sarebbe bastato grattare sotto la superficie per capire quello che stava succedendo a Smemoranda». Sono i lavoratori e le lavoratrici dell’azienda che ideava il celebre diario a denunciare, dietro anonimato per paura di ritorsioni, una realtà diversa rispetto a quella raccontata dalla dirigenza in occasione del fallimento dell’asta per l’acquisizione del marchio.

Comunicati stampa atti a scatenare la nostalgia generazionale per l’oggetto di culto. Per gli ex dipendenti della Smemo si è trattato di una crisi cominciata molti anni prima della pandemia, oggi addebitata dalla società come causa principale del fallimento, avvenuto già lo scorso marzo. Sebbene l’agenda, nata nel 1978 da un’idea di Nico Colonna, Luigi Vignali e Michele Mozzati (in arte Gino e Michele) con la spinta ideale dei movimenti studenteschi, abbia continuato a proporre contenuti sui diritti sociali e civili, diversi lavoratori denunciano di essere stati soggetti a «tensioni, minacce, scelte dirigenziali scriteriate, sessismo».

Oggi Smemoranda Group, dopo aver venduto ogni asset tra cui Zelig, lascia redattori, artisti, autori e maestranze non pagati, contributi non versati per oltre 160 dipendenti e un debito complessivo di circa 40 milioni. «I primi anni furono magici – raccontano – creatività, divertimento, ci sentivamo una famiglia». Ma quando, dopo due decenni d’oro fra gli anni ’80 e ’90 nei quali la Smemoranda diventa un segno distintivo dei progressisti, la concorrenza si infittisce, lo spirito che animava il diario si prosciuga e con esso anche i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici dell’azienda. E il clima scherzoso dei primi anni diventa «censorio e maschilista». «Da cooperativa è diventata un’azienda ma sembrava fosse rimasto lo zoccolo duro dei valori della sinistra – spiegano – invece l’ambiente lavorativo tossico e turbo capitalista le ha distrutto l’anima, con un piano aziendale rovinoso ben prima del Covid e dei progetti fallimentari».

Così raccontano: «Le donne venivano chiamate “ciccia” o con regionalismi offensivi, le battute sui corpi erano continue, così come quelle omofobe e se provavi a rispondere a tono dicevano che eri una persona pesante e non capivi l’ironia». «Ai vertici aziendali c’erano solo uomini, le donne erano considerate ancelle anche se a livello operativo costruivano il diario con responsabilità non riconosciute e non remunerate», spiega uno dei dipendenti. Importanti anche le differenze retributive: «Mentre la redazione era in cassa integrazione, l’azienda ha assunto due giovani uomini con stipendi superiori anche di 800 euro rispetto a quello delle colleghe con più anzianità».

E ancora: «Le donne non hanno mai avuto uno scatto di carriera nonostante l’abnegazione». Quando qualcuno ha provato ad avanzare delle rimostranze, i dirigenti avrebbero risposto che chi tentava «di fare il sindacalista sarebbe stato ritenuto pericoloso». Venivano poi isolati con la cassa integrazione a zero ore e con lo svuotamento progressivo delle loro funzioni professionali. Nonostante la crisi perdurasse ormai da anni e aumentassero i licenziamenti, secondo quanto denunciato dagli ex dipendenti, «i dirigenti fino al fallimento hanno goduto di benefit e di diverse macchine aziendali, anche per usi privati».

Secondo i lavoratori, «il fatto che nessuno abbia denunciato pubblicamente questa situazione fa capire il clima di paura che si era creato e che sopravvive perché Gino e Michele sono molto potenti». E denunciano: «La sinistra milanese è stata sorda alle nostre segnalazioni, ci rispondevano “sono ottime persone” ma questi sono i fatti, non vogliamo sparlare di un mito». «La necessità di mantenere la ricchezza fa diventare crudeli – commenta anche un noto illustratore – tutti glorificano il lato romantico della Smemo, ma dietro c’erano le sofferenze dei lavoratori». «Rimane una grande amarezza perché volevamo bene alla Smemoranda che, in un momento del genere, avrebbe tenuto alta la bandiera dei diritti – notano due ex -. Oggi le aziende si affrettano a fare social washing ma noi non ne avevamo bisogno, erano nel nostro dna».