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Sinwar, dall’ergastolo alla leadership del movimento

Yahya Sinwar, leader di Hamas a Gaza city foto ApYahya Sinwar, leader di Hamas a Gaza city – foto Ap

Il ritratto A 24 anni fondò un gruppo per unire i collaborazionisti. È l’architetto del 7 ottobre. Con il tentativo di mettere insieme ala militare e politica

Pubblicato circa 5 ore faEdizione del 18 ottobre 2024

Sono state poche le immagini di Yahya Sinwar che hanno raggiunto il grande pubblico, soprattutto quello europeo, statunitense, occidentale. E tra le poche, la più diffusa sarà di certo l’immagine del suo corpo senza vita tra le macerie di un edificio, circolata così rapidamente sui social subito dopo la notizia della sua probabile uccisione a Tel el Sultan.

POCO CONOSCIUTO fuori da Gaza e dai circoli islamisti, Sinwar lo è stato per buona parte della sua vita. Prima perché troppo giovane, e poi perché un terzo della sua vita lo ha passato nelle carceri israeliane. Nato nel 1962 a Khan Younis, nel sud della Striscia da una famiglia di profughi palestinesi espulsi a seguito della nakba del 1948 da Majdal, una famiglia tradizionale e conservatrice, Sinwar si era avvicinato appena ventenne all’Islam politico palestinese e a sheykh Ahmed Yassin, poi fondatore di Hamas. All’università islamica di Gaza, dove frequentava le lezioni da studente-lavoratore, muratore come muratore era il padre. Lì aveva incontrato due coetanei con cui aveva fatto attività politica nel Blocco islamico, la rappresentanza studentesca di marca islamista, e avrebbe condiviso, nella terza parte della sua vita, la guida di Hamas a Gaza, e cioè Khalil Hayya e Ismail Haniyeh.

Tuttavia, Sinwar non aveva avuto il tempo di costruirsi un ruolo più rilevante dentro l’organizzazione, anche perché aveva subito scelto la via delle armi. Aveva fatto dentro e fuori dal carcere, a cominciare dal primo arresto nel 1982, fino all’arresto che – appena sei anni dopo – avrebbe segnato il suo ingresso definitivo in cella, sulle spalle una condanna a quattro ergastoli con l’accusa di aver progettato il rapimento e l’uccisione di due soldati israeliani. Sinwar, insomma, non era una figura centrale di un movimento che era nato formalmente solo pochi mesi prima del suo arresto, il 9 dicembre 1987, in una riunione a casa di sheykh Ahmed Yassin a Gaza. Aveva però fondato nel 1986, ad appena 24 anni, un gruppo armato, al-Majd, per identificare e punire con durezza e crudeltà i collaborazionisti che Israele aveva nella Striscia, insieme a Rawhi Mushtaha, un altro militante diventato poi un pilastro dell’ala militare di Hamas.

LUNGI DALL’ESSERE una parentesi nella sua vita politica, gli oltre due decenni in galera sono stati, per Sinwar, parte fondamentale della sua ascesa al potere. Come è consuetudine nell’attivismo palestinese, Yahya Sinwar non aveva dunque interrotto il suo impegno politico durante la detenzione. Al contrario, aveva rafforzato il suo ruolo di leader all’interno di Hamas proprio nei quasi 22 anni trascorsi in carcere tra il suo arresto nel 1988 e il suo rilascio nel 2011.

Entrare in carcere non significava infatti, almeno prima dell’ottobre 2023, abbandonare l’attivismo per i palestinesi che aderivano alle fazioni. Al contrario, i prigionieri sono stati attori fondamentali, soprattutto durante la decisiva transizione politica palestinese, tra 2004 e 2007. E Sinwar aveva fatto parte di questa storia come capo della circoscrizione di Hamas nelle prigioni, una delle quattro circoscrizioni in cui Hamas è suddivisa. Capo della circoscrizione delle prigioni, dunque il rappresentante di almeno un terzo dei prigionieri politici palestinesi.

Quando era uscito dal sistema penitenziario israeliano nell 2011, attraverso l’accordo per la liberazione di Gilad Shalit in cambio di 1.027 detenuti palestinesi, Sinwar era già parte, dunque, della nomenklatura di Hamas, della leadership. Era stato però il suo nuovo ingresso a Gaza, e il sostegno palese ricevuto dalle Brigate Ezzedine al Qassam, a lanciare Sinwar verso la guida del movimento dentro la Striscia di Gaza e a rendere possibile il suo ingresso nel politburo.

Personalità complessa, controversa, tra comportamento autocratico e pragmatismo, Sinwar si era subito profilato come il capo di Hamas nella Striscia. Anche se la sua rielezione, nel 2021, aveva palesato difficoltà e imbarazzi dentro la struttura del movimento islamista. Per essere rieletto alla guida della circoscrizione di Gaza, si era dovuto sottoporre alle forche caudine di ben tre ballottaggi. Aveva poi portato a casa il risultato, e da allora aveva lavorato, in particolare, per due obiettivi. Rafforzare lo strumento militare dentro Gaza, sino a costituire un comando unificato delle fazioni sotto la guida delle Brigate al Qassam. E poi indicare il suo modello nazionalista, esplicitato più volte nei suoi discorsi: Yasser Arafat, il grande avversario di Hamas, considerato da Sinwar come il modello del resistente che unisce i palestinesi.

SONO DUE OBIETTIVI che diventano, ahimè, palesi nel massacro del 7 ottobre 2023. È infatti Sinwar l’architetto del 7 ottobre, assieme al capo delle Brigate al Qassam Mohammed Deif, e a due alti dirigenti dell’ala militare, Mohammed Sinwar (suo fratello) e Marwan Issa. Non c’è solo il debito da pagare ai prigionieri e a quegli oltre vent’anni passati assieme a loro nelle carceri israeliane, dietro il 7 ottobre. C’è il tentativo di mettere assieme lo strumento militare con la parte politica, e dare definitiva preminenza alle armi. L’anno terribile del 2023, e quello successivo che segna la distruzione per mano israeliana della Striscia di Gaza, vedono anche l’ascesa di Sinwar al ruolo più importante dentro Hamas. Capo del politburo generale del movimento, dopo l’omicidio mirato extragiudiziale di Ismail Haniyeh a Teheran, il 31 luglio scorso. Per la prima volta, alla guida di Hamas c’è un uomo che non può uscire da Gaza, e che definisce le scelte del movimento dall’interno di un territorio in cui è stato il potere, assieme politico e militare. Il suo periodo alla guida di Hamas dura meno di due mesi. Tutto ancora da comprendere, invece, il suo lascito e l’entità del prezzo pagato dal movimento islamista.

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