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Singer, fra sogni traditi e voli di cicogne

Singer, fra sogni traditi e voli di cicogneShai Kremer dalla serie «Fallen empires», 2012

Scrittori della diaspora Appunti dallo scetticismo più radicale, nel taccuino di viaggio, «La nuova Russia», che Adelphi traduce dall’inglese. E esercizi di fuga dalla tradizione ebraica, in «Willy», che Giuntina traduce dallo yiddish

Pubblicato un giorno faEdizione del 27 ottobre 2024

Spesso messe in ombra dalla fortuna del fratello Isaac Bashevis e dalle sue trame oscillanti tra visioni romantiche, punte grottesche, movenze espressioniste, talvolta persino surreali, le storie di Israel Joshua Singer, maggiore di nove anni, sono quasi l’esatto opposto: ruvide e terragne, si muovono, con il respiro calmo dell’epica, da una cellula neoromantica, per dirigere presto i passi verso un realismo limpido e preciso, dove l’osservazione minuta di caratteri e ambienti guadagna tutto il campo.

Scansando ogni sbavatura d’avanguardia, sulla scia dei grandi realisti europei del Settecento e più ancora del secolo successivo, il piglio robusto di Israel Singer – memore soprattutto della lezione di Tolstoj – procede controcorrente rispetto all’acidità modernista, secondo un principio insieme corale e riempitivo, risultando in romanzi-fiume, saghe familiari e collettive, epopee genealogiche e generazionali, in studiato equilibrio tra scandaglio psicologico e analisi della società.

Reportage in tempo reale
Israel non ha solo prodotto gli affreschi smisurati e i respiri amplissimi dei Fratelli Ashkenazi o le descrizioni smerigliate e quasi ecfrastiche della Famiglia Karnowski: ha la presa sicura anche su altre forme, meno conclamate, forse minori per dimensione ma non per qualità. Come il reportage dall’Unione Sovietica che stende, tra il 1926 e il 1927, su richiesta di Abraham Cahan, direttore del «Forverts», foglio yiddish socialista con sede a New York di cui Singer è collaboratore già da tre anni.

La corrispondenza di viaggio redatta nei tre mesi russi e lanciata in tempo reale sul giornale, è poi raccolta in volume nel 1928 con il titolo Nay-Rusland. Bilder fun a rayze. La nuova Russia Immagini di un viaggio, di recente pubblicato da Adelphi (nella traduzione dall’inglese di Marina Morpurgo, per la cura di Elisabetta Zevi, a corredo una postfazione di Francesco Cataluccio pp. 276, e 19,00) propone – con un registro, insieme odeporico e giornalistico, sempre attento alle possibili contaminazioni tra divulgazione, intrattenimento letterario e informazione – un distillato di quello scetticismo radicale che Singer coltiva fin da giovane e dirige verso ogni catechismo, non importa se religioso o politico.

Quando scrive il suo travelogue, Singer non è nuovo ai soggiorni nella Russia dei soviet: il primo viaggio a Kiev e a Mosca risale al 1918, nel primo anniversario della Rivoluzione d’ottobre. Lungo i tre anni trascorsi vis-à-vis con la società sovietica, scrivendo per quotidiani yiddish e collaborando con gruppi intellettuali di sinistra, è dapprima entusiasta della rivoluzione e tutto sommato persuaso dal comunismo di guerra, salvo perdere presto ogni speranza nella rivoluzione bolscevica e, respinto dall’atmosfera plumbea e ideologicamente squadrata che ristagna a Kiev, ripiegare su Varsavia.

Cinque anni dopo, tornato in Russia come inviato del «Forverts», la sua descrizione delle magnifiche sorti comuniste è ancora più smagata. È passato appena un anno dalla morte di Lenin, e il suo mausoleo, esposto a mille laici pellegrinaggi, ha già imbalsamato la rivoluzione: il viaggio di Singer tocca le principali stazioni dell’ecumene sovietico – Mosca, Minsk, Bobrujsk, Char’kov, Ekaterinoslav, Odessa, la Crimea, Kiev, Berdioev – scoprendo, pagina dopo pagina, in modulazioni diverse ma uguali nella loro impassibile e ferrigna fissità, il volto irrigidito di un socialismo di Stato, neanche lontano parente del vecchio comunismo bellico: dileguata la carica rivoluzionaria insieme al candore politico della prima ora, le più smaccate contraddizioni si mostrano senza ritegno.

Prima di tutto a Mosca, dove l’aquila bicipite dello zarismo e della chiesa ortodossa divide gli spazi con l’enorme bandiera rossa che garrisce dalla torre del Cremlino, linde case popolari si intervallano a fatiscenti stamberghe insaccate nella più nera arretratezza, gli impuniti nouveaux riches della Nep mangiano caviale, tracannano vodka, entrano ed escono dai bordelli mentre torme di accattoni e bambini macilenti affollano le strade; su tutto, l’occhio vigile delle spie di regime, a sorvegliare ogni nota stonata nella fanfara della militanza.

Dentro la Wunderkammer bolscevica, la prensile curiosità di Singer si appunta sulle colonie ebraiche, sulle nuove cooperative fondate, su un’aspra terra di lavoro in mezzo alla steppa, da bottegai, carrettieri, pellicciai in fuga dai pogrom, trasformati dall’oggi al domani in contadini induriti e in ardenti pionieri del collettivismo. Coeva ai viaggi sovietici di Joseph Roth e Walter Benjamin, La Nuova Russia è una cronaca semiseria e disillusa che cartografa, su istantanee di rara lucidità, l’accartocciarsi del sogno rivoluzionario.
Singer è anche maestro della forma breve e i suoi racconti sono cristalli di narrazione che rilanciano, in compattezza e rotondità, la forza dei romanzi e la problematica identitaria che li attraversa, tesa tra la solitudine glaciale del singolo e il conformismo della massa, a forbice tra lo sgretolarsi dell’appartenenza ebraica e la strenua difesa di un’eredità spirituale. Il tutto lasciando a terra quel grano di grevità e didascalismo, prodotto dall’eccesso di contesto storico, che tende a zavorrare i suoi grandi romanzi e aprendo su nervose stenografie dell’interiorità, più debitrici alla stagione modernista. Un esempio su tutti è Willy, romanzo breve pubblicato a puntate sul «Forverts» nel 1936, ora disponibile da Giuntina (pp. 145, € 18,00) nell’ottima traduzione dallo yiddish di Enrico Benella, che si misura coraggiosamente con il testo originale firmando anche il saggio conclusivo e corredando il testo di un apparato di note che ne appiana la comprensione.

Il personaggio eponimo è un giovane ebreo polacco, sideralmente distante dai rodatissimi cliché della pietas e dell’erudizione ebraica: forte, aitante, taciturno, sano, Volf Rubin attende svogliatamente agli studi scritturali – quel tanto che basta per superare il collaudo dell’istruzione di base – e sgrana orazioni meccaniche, insofferente alle sottigliezze talmudiche e disinteressato alle dispute. Osserva invece il volo delle cicogne, accudisce i cavalli, ascolta la rugosa saggezza dei contadini. Attraverso questa felicità naturale passa la faglia del conflitto con il padre, pio ebreo che ha la Torah sulla punta delle dita e la vita di campagna in odio: appena Volf gira l’angolo per il servizio militare, vende la tenuta e si trasferisce nello shtetl.

Richiamo ancestrale
Origina qui l’allontanamento del giovane, che molla tutto e va in America, sposa la figlia di un contadino cristiano, cambia nome in Willy prendendo così le distanze dall’ebraismo di casa ma senza strepitanti apostasie e senza mai recidere il legame con il proprio passato. Viene la guerra in Europa e il richiamo delle origini torna a farsi sentire: Willy invita i genitori a vivere insieme nella fattoria oltreoceano, e il padre, poco alla volta, trasforma la casa in un formicaio di ebrei ortodossi e in uno spazio ingombro di passato. La tradizione – sembra dire Singer che occhieggia da dietro le spalle di Willy e ha a sua volta tentato il taglio con l’ortodossia paterna trasferendosi negli Stati Uniti – torna sempre imperiosa e reclamante; impossibile trovare posa, si può solo, semmai, tentare un’altra fuga.

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