Simenon, fughe tragiche del periodo americano
Scrittori del novecento Miniere abbandonate, fiumi secchi, sale d’aspetto di hotel, espressionismo cupo: «Delitto impunito», 1954 (Adelphi), risale alla stagione statunitense di Simenon, eclissatosi dall’Europa dopo la guerra
Scrittori del novecento Miniere abbandonate, fiumi secchi, sale d’aspetto di hotel, espressionismo cupo: «Delitto impunito», 1954 (Adelphi), risale alla stagione statunitense di Simenon, eclissatosi dall’Europa dopo la guerra
Egli stesso nei panni del fuggiasco metafisico – come uno di quei suoi personaggi che scappano più dalla propria vita che da altro – Georges Simenon trovò nella brulicante immensità degli Stati Uniti, tanto nelle città e cittadine costiere quanto negli spazi deserti della Death Valley, un luogo a sé congeniale: per eclissarsi, e per scrivere. La sua era una fuga non del tutto estemporanea: dopo la seconda guerra mondiale lo scrittore belga fu accusato di collaborazionismo, e al suo nome vennero associate le cinque odiose lettere, «Vichy».
Dal suo ingresso per la porta principale – New York – nel 1945, trascorsero, prima che in Francia ci si dimenticasse delle accuse, dieci anni, alla fine dei quali Simenon sarebbe tornato in Europa dopo un periplo tra Canada, New York, Connecticut, Florida, California e Arizona. Furono tempi particolarmente felici per la sua produzione letteraria, e non sembra del tutto ingiustificato rinvenire in alcuni motivi romanzeschi le tracce di un vero e proprio «periodo americano»: a parte l’ovvia ambientazione statunitense di alcune storie, un certo e più marcato espressionismo cupo delle scene clou, l’ampiezza geografica inconsueta dello spazio narrativo, la ricorrenza di fughe tragiche (anche se qui non si tratta di una peculiarità in sé bensì di una maggiore ricorrenza, quando più spesso nei romanzi «duri» degli anni trenta e quaranta il protagonista finiva per «tornare all’ovile» o per racchiudere in un tocco quasi umoristico le proprie peripezie).
Gli ultimi due volumi pubblicati in Italia forniscono spunti d’interesse ulteriori sulla stagione statunitense di Simenon: sia Delitto impunito (traduzione di Simona Mambrini, «Biblioteca» Adelphi, pp. 184, € 18,00), infatti, che due delle tre storie di I misteri del Grand-Saint-Georges e altri racconti (traduzioni di Marina Di Leo, Laura Frausin Guarino e Ena Marchi, «gli Adelphi», pp. 132, € 12,00) sono stati scritti oltreoceano; il romanzo propone una «location» del tutto peculiare, mentre uno dei racconti, «Il piccolo sarto e il cappellaio», è in sé un piccolo esperimento che permette di affacciarsi – caso raro – nella officina letteraria di quello che resta un misterioso scrittore-macchina, e che valse a Simenon il prestigioso premio dello «Ellery Queen’s Mistery Magazine».
Anche il protagonista di Delitto impunito, Élie, si darà alla macchia nel Nuovo Mondo, ma solo a metà del romanzo. Una vertiginosa ellissi di oltre due decenni divide infatti il libro in due blocchi: il primo si svolge a Liegi – città natale di Simenon – negli anni venti o trenta; il secondo in Arizona, nel dopoguerra, in quella che una volta si sarebbe detta una boom town mineraria. Scritto nel 1953 a Lakeville, Connecticut, Delitto impunito accosta due fondali tipici in Simenon: quello grigio, piovoso e un po’ solingo della città nordeuropea e quello ambiguo e destabilizzante di Carlson City, sul quale a più riprese il narratore indugia, lasciandosi andare con gusto a dettagli d’ambiente e persino alla ricostruzione di qualche vicenda locale – le miniere abbandonate, le beghe di un capitano d’industria nella immaginaria cittadina delle Rocky Mountains – , mentre l’azione si svolge in una americanissima sala d’aspetto di un albergo davanti al quale passa il greto di un fiume secco, un arroyo, parola che viene divertitamente ripetuta nel testo, più volte in poche pagine.
Anziché ricordare una tavola di Edward Hopper – cui spesso si è fatto riferimento per le atmosfere del Simenon di questi anni – il colpo di scena agghiacciante che apre la seconda parte del romanzo spaventa piuttosto come un incubo cinematografico di David Lynch: quando nella hall vuota dell’hotel Élie si trova davanti l’uomo che credeva di avere ucciso, infatti, vede che «un’intera metà del viso non era più quella di una volta. Solo la fronte e gli occhi erano rimasti intatti; tutta la parte inferiore, naso, bocca e mento, sembrava fatta di un’altra materia, simile a cera, meno mobile, indipendente dai muscoli, e solcata da cicatrici semicancellate».
Poche pagine ma ben ventisei anni prima, Élie aveva commesso il gesto folle che credeva definitivo, su un ponte di Liegi, nottetempo: «Sparò subito e non fece apposta a mirare al viso. In realtà non mirò affatto. L’arma era come esplosa in fondo al braccio, scuotendolo con violenza. Nel medesimo istante, la bocca, il mento di Michel scomparvero, riducendosi a una cavità buia e rossa».
Il protagonista di Delitto impunito è originario peraltro di Vilnius – città tutt’altro che estranea alla geografia letteraria di Simenon –, dove si svolge l’azione di «I misteri del Grand-Saint-Georges», unico racconto (eponimo) della raccolta a essere stato scritto in Francia prima della guerra. Risalgono invece alla fine degli anni quaranta sia «Il ristorantino di Place des Ternes» sia il già citato «Piccolo sarto e il cappellaio»: lo scrittore belga riscrisse il finale del racconto nel quale il modesto sarto armeno o siriano o turco Kachoudas si trova per caso a seguire l’ombra del famigerato «assassino delle sette vecchie» (più che per un alto senso della giustizia, per ottenere la ricompensa: «Kachoudas pensava solo ai ventimila franchi. Anche alla propria pelle, certo, ma non quanto ai ventimila franchi»).
Il secondo finale, divertente quanto il primo e riportato nella edizione Adelphi in Appendice, premia gli sforzi del sarto per mettere le mani sulla ricompensa. A Simenon dovette piacere molto la vicenda che aveva imbastito, perché quello stesso anno lavorò a una terza versione, che sarebbe diventata poi I fantasmi del cappellaio, romanzo nel quale il punto di vista non è quello dell’irresoluto sarto, ma piuttosto quello meno faceto, e ben più interessante, dell’assassino.
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