Giacomo Macola, dopo aver insegnato a Cambridge e a Canterbury, è ora professore associato di Storia e istituzioni dell’Africa all’università La Sapienza di Roma. Da poco ha pubblicato il libro Una storia violenta. Potere e conflitti nel bacino del Congo (Viella, 2021). In questo testo lei vede una continuità storica tra il Congo pre-coloniale e l’odierna Repubblica democratica del Congo, che si lega all’esistenza di quelle che chiama «Signorie della guerra». Che cosa intende con questa espressione?

La violenza politico militare ha giocato un ruolo fondamentale nel contesto congolese nel corsi degli ultimi due secoli. Le radici di questa violenza vanno ricercate nell’incorporazione dell’Africa centrale in network commerciali a lunga distanza, a partire dalla metà del 1800, ruotanti attorno alle esportazioni di schiavi e avorio. Questo commercio mette in crisi le organizzazioni politiche presenti sul territorio, i regni sacri tipici dell’Ancien Régime congolese. Il vuoto politico che si crea viene riempito da organizzazioni che chiamo Signorie della guerra (Sdg). Sono formazioni caratterizzate da leadership carismatiche, dall’utilizzo della violenza come principale meccanismo di regolamentazione politica e di spoliazione economica, da una forte connessione con il mercato internazionale, dal reclutamento di giovani sradicati dalle loro terre e organizzati in eserciti o milizie e, infine, dalla propensione a stabilire relazioni parassitarie con le comunità di produttori agricoli.

Quanto ha pesato il periodo coloniale sul perpetuarsi di queste forme politico-militari?

Bisogna distinguere il periodo dello Stato libero del Congo da quello della colonia belga (dopo il 1908). Lo Stato libero prolunga l’esistenza delle Signorie della guerra: fa uso di queste organizzazioni per portare a termine l’occupazione territoriale del Congo e per continuare a estrarre le risorse del territorio (in primis il caucciù) attraverso lo sfruttamento spietato del lavoro dei civili. Dal canto loro, i signori della guerra e i loro seguiti armati combattono a fianco dell’esercito dello Stato libero, la Force Publique, allo scopo di mantenere intatto il loro precedente stile di vita predatorio. Con il Congo belga le cose cambiano leggermente, poiché entrano in gioco quei meccanismi di supervisione del territorio che mancavano nel periodo dello Stato libero. In questo periodo le Sdg sembrano sparire dal contesto congolese, ma il vecchio modus operandi resta in vita nella Force Publique, che manterrà sempre un atteggiamento vessatorio verso la popolazione civile. Non a caso fu proprio una sommossa della Force Publique nel luglio del ’60 a inaugurare la «crisi del Congo» dei primi anni post indipendenza, un periodo di frammentazione politica e militare e di aperta conflittualità che vide la riemersione in superficie di nuove Sdg. Da questo punto di vista, la Force Publique può essere intesa come il filo conduttore tra le Signorie della guerra del tardo periodo pre-coloniale e dello Stato libero del Congo e quelle del periodo moderno post coloniale.

Possiamo dire che le formazioni paramilitari che oggi si spartiscono il territorio congolese e le sue risorse sono delle Signorie delle guerra?

Secondo me sì. Magari possiamo chiamarle micro-Signorie della guerra, ma i principi alla base del loro agire politico e le loro strategie di spoliazione economica sono rimasti identici.

Che ruolo riveste nel controllo del territorio lo Stato congolese che si costruisce dopo la dominazione coloniale?

Il problema è che lo Stato non si costruisce. A seguito di una serie di secessioni, come la più famosa, quella del Katanga, e la creazione nel Congo orientale di un governo neo-lumumbista, lo Stato congolese appena nato cessa di esistere come unità territoriale. È a questo punto che assistiamo alla riemersione di Sdg. I vari attori politici che si contrappongono l’uno all’altro durante i primi momenti dell’indipendenza possono tranquillamente essere paragonati a signori della guerra. Questa riemersione di gruppi politico-militari indipendenti dallo Stato centrale diventa particolarmente evidente nel periodo delle rivolte popolari, 1964/65, appena prima dell’instaurazione della dittatura di Mobutu.

In che modo le rivolte popolari danno spazio alle Signorie della guerra?

Questo è il periodo in cui il Congo orientale si caratterizza come la zona dove sono più evidenti le Sdg. La rivolta dei Simba è un esempio di come le rivolte danno il la alla riemersione di Sdg. Le aspirazioni politiche dei Simba erano limitatissime. I loro leader erano politici di medio livello che utilizzano per il loro tornaconto la rabbia sociale che li circonda, incarnata da schiere di giovani frustrati che si aspettavano che l’indipendenza avrebbe cambiato la loro condizione socio economica.

Le Signorie della guerra però non vivono solo del saccheggio nei confronti delle popolazioni civili. Che ruolo hanno le materie prime del Congo nel loro sostentamento

Alle ribellioni fa seguito un nuovo accentramento autoritario con il colpo di stato di Mobutu. L’impianto clientelare che caratterizza il potere mobutista va in crisi nei primi anni ’70; nel corso degli anni ’80, l’unica organizzazione su cui Mobutu può appoggiarsi per il mantenimento del potere è l’esercito e i suoi corpi speciali. Negli ultimi anni della dittatura mobutista, il Congo si «auto-cannibalizza», visto che Mobutu si vede costretto a cedere delle regioni di frontiera particolarmente ricche di risorse ai leader di questi corpi speciali. I nuovi signori della guerra che, sfruttando i soldati dell’esercito sotto il loro comando o milizie create ad hoc, cominciano a fare esattamente ciò che facevano i loro predecessori: vessare le popolazioni, estrarre materie prime commerciabili e rimpinguare i loro conti svizzeri. Questi feudi diventano i domini di quelli che potremmo chiamare «signori della guerra 2.0» e risultano permeabili a influenze esterne.

Quanto queste formazioni sono indipendenti e quanto sono invece usate, influenzate e foraggiate da Stati esteri che hanno estremo interesse nell’appropriazione di queste materie prime?

Nel contesto della Grande guerra africana, che fa seguito al genocidio in Ruanda del 1994, è evidente che l’influenza dei vicini Uganda e Ruanda sulla formazione di gruppi armati nel Congo orientale sia stata dominante ed è anche innegabile che a partire dai tardi anni ’90 i paesi confinanti avevano interesse nello sfruttare economicamente il Congo (soprattutto il Kivu e l’Ituri, nel Congo orientale) attraverso queste milizie locali. Però è anche vero che questi gruppi non nascono dal Ruanda o dall’Uganda, non sono solo il risultato di manipolazioni esterne: sono anche il prodotto di preesistenti tensioni interne. È semplicistico ridurre questi gruppi a marionette dell’esterno.

Qual è o quali sono secondo lei i punti nevralgici da risolvere per sperare in un futuro pacifico per il Congo?

Due cose secondo me sarebbero importanti per ristabilire una pace, possibilmente duratura. La prima è che l’esercito della Repubblica democratica del Congo dovrebbe favorire la smobilitazione e l’incorporazione nei sui ranghi dei combattenti, dato che questi non hanno proprie opportunità economiche per sopravvivere se abbandonano il loro status di miliziani. Il secondo punto sta nel dare una qualche speranza a questi giovani aprendo delle opportunità economiche che non passino attraverso il dispiegamento della violenza. Come dimostrano gli ultimi, violentissimi, vent’anni, si tratta di cose più facili a dirsi che a farsi.