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Sholem Aleichem, un po’ d’ordine, prego, tra le sue passioni

Sholem Aleichem, un po’ d’ordine, prego, tra le sue passioniAmine El Bacha, «The Enchanted Neighbourhood», 2004

Grandi dialoghi/7 Nel 1894, all’uscita di «Tewje il lattaio», lo scrittore yiddish disse che avrebbe riportato le parole del protagonista risparmiandosi la fatica di descriverlo

Pubblicato più di un anno faEdizione del 6 agosto 2023

Fin dall’infanzia Solomon Naumovič Rabinovič  – nato a Perejaslavl, Impero russo, nel 1859 e morto a New York nel 1916aveva due sogni: essere favolosamente ricco e trasformare lo yiddish in una lingua letteraria paragonabile addirittura al russo. Il primo sogno lo spinse a frequentare con assiduità le borse di Kiev e di Odessa, dove sperperò il considerevole  patrimonio della moglie;  dal secondo sogno nacquero invece capolavori indimenticabili, tradotti in decine di lingue, trasformati in testi teatrali, in film hollywoodiani, in musical. Scelse  come pseudonimo Sholem Aleichem, che certifica la sua eccentricità tra gli esteti e i decadenti del fin de siècle europeo: un nome strampalato e un po’ ridicolo con il suo doppio significato («la pace sia con te» e «salve, come stai?») che suggerisce empatia e strette di mano lungo il perimetro di una commedia umana che, dallo shtetl ebraico, si proietta verso l’universale.

Nelle sue pagine troviamo storie di uomini semplici che cercano di barcamenarsi tra tradizione e modernità, lottano con la miseria e le ingiustizie, costantemente sequestrati da sogni, delusioni e ancora  illusioni,  sperando, alla fine, di essere almeno un po’ felici.

Ispirato da Gogol e innamorato del teatro, Sholem Aleichem amava far parlare i suoi personaggi sapendo che il mondo ebraico, e quello orientale in modo particolare, non trovava consistenza solo nei libri (che pure Rabinovič conosceva bene) ma nelle tante voci del suo popolo. Era tanto affascinato dalla varietà timbrica e, soprattutto, dalle meshugas, la vertiginosa energia idiomatica dello yiddish, che nella sua opera (i ventotto volumi della edizione ufficiale  che coprono a malapena la metà della sua produzione), per quanto varia e disomogenea, ciò che prevale è la varietà semantica e lo slancio ritmico.

In Tevje il lattaio, considerato il suo capolavoro, anche grazie al  grande successo del film che lo riprende, Il violinista sul tetto del 1971, Sholem Aleichem fa risuonare le molte cadenze locali e culturali dello yiddish  intrecciandolo con accenti russi, calchi ebraici, reminiscenze anche inventate dell’aramaico. Del resto, i capolavori   di Sholem Aleichem sono tutti rivolti all’«immaginazione verbale» (vort-fantazye), scritti per essere messi in scena o declamati, come del resto faceva in letture memorabili il loro autore che orchestrava il flusso del linguaggio riportando nella pagina scritta tutte le caratteristiche della vocalità.

In Tevje il lattaio è dominante tra tutte le voci quella  del protagonista: «La storia me l’ha raccontata Tevje stesso mentre si trovava davanti alla mia dacia con il suo cavallo e il suo carretto a pesare burro e formaggio. La storia è interessante, ma Tevje lo è mille volte di più! Io trascrivo la storia con le sue stesse parole e mi risparmio la fatica di descriverlo, visto che è lui stesso a descriversi», chiarisce Sholem Aleichem nel 1894 annunciando la pubblicazione del romanzo di un uomo candido con cinque figlie da sposare, molta fede e non poche angosce.

Nel suo inarrestabile monologo, il lattaio riporta in modo più o meno corretto il linguaggio di tutti coloro che incontra dando vita a una sequenza variegata di dialoghi che nessuna traduzione potrà restituire: la continua polemica con la moglie Golde, conservatrice e brontolona almeno quanto lui è bonario e accomodante, gli accorati discorsi  con le figlie ribelli che seguono le promesse dell’amore e che, per farsi capire – e perdonare – dai genitori scelgono il vocabolario dei sentimenti, le infinite conversazioni con clienti, mezzani, vicini e stranieri.

Benedizioni, maledizioni, proverbi, preghiere, racconti vengono via via proposti da personaggi diversi nelle forme più varie. Stupefacenti anche i salti stilistici nei quali si riflettono differenze sociali o religiosi e che appaiono in modo esemplare nella conversazione di Tevje con le eleganti signore che parlano uno yiddish raffinato, scambiato dal protagonista per aramaico, o in quella con  il pope che gli comunica in un linguaggio burocratico la fuga di una delle figlie, cercando  inutilmente di rabbonirlo.

Tra i tanti dialoghi proposti dal romanzo essenziale è quello strano e squilibrato tra Tevje e lo stesso Sholem Aleichem che il protagonista cerca, interroga, osserva, blandisce, cercando inutilmente di scalfirne il silenzio.

La sua presenza rispettata e schiva accoglie negli anni la narrazione torrenziale del lattaio, obbligando con discrezione il protagonista a mettere un po’ di ordine tra le ossessioni e le passioni di una vita sconnessa e a soffermarsi paziente sulle grandi questioni etiche e religiose in cui confusamente si dibatte.

E’ un dialogo asimmetrico e intenso che disegna un percorso moderatamente terapeutico  attraverso il quale il protagonista, tra delusioni e consapevolezza – qui come in ogni romanzo ‘classico’ di formazione –, giunge a «diventare quello che era», cioè  semplicemente un «uomo di ieri», che non vuole rinunciare alla sua porzione di affetti e serenità.

In The Worlds of Sholem Aleichem (edito da Schocken nel 2013) Jeremy Dauber scrive che quella vissuta da Tevje è una talking cure, suggerendo così una vicinanza anticipatrice tra quello scrittore muto e uno psicoanalista.

Un paragone suggestivo, ma troppo lontano dall’universo umano e culturale di Sholem Aleichem – che pure citerà la psicoanalisi esplicitamente, e non senza diffidenza, nel racconto «Tre vedovi» del 1907 –  per essere plausibile.  Vi è semmai per Rabinovič, come del resto per Freud, l’ombra di una figura centrale nell’ebraismo orientale quella del rebbe chassidico, guida carismatica di gran parte degli ashkenaziti e solido patrimonio mitico anche di coloro che tra Ottocento e Novecento avevano scelto la assimilazione.

Pregando o tacendo, ascoltando liti, dubbi, speranze di un microcosmo tumultuoso, queste figure distanti e autorevoli trovano nella Scrittura e in una profonda  conoscenza dell’animo umano risposte e consolazioni per i problemi di esistenze precarie  e di un cuore devoto.

In Tevje il lattaio, Sholem ripropone quel modello di relazione in una tessitura mondana, aperta e problematica: è uno scrittore in questo caso che contiene e orienta la vita del protagonista permettendogli di narrare senza timori la sua storia e accogliendola come giudice benevolo, fino alla (moderata) pacificazione finale.

Ma oltre la fantasmagoria delle voci e l’idealizzazione etica e sociale dello scrittore che assume orgogliosamente su di sé alcuni dei caratteri del rebbe, echeggia potente in questo ‘dialogo a una voce sola’ la figura di Giobbe l’uomo che si narra al Signore senza avere risposta e che ritorna da protagonista, creatura tra le creature, nell’immaginario di una generazione di artisti in cerca di parole nuove, capaci di unire gli uomini tra loro e di collegare un «io» ad un «Tu» trascendente e sempre più silenzioso.

Il dialogo
Sholem Aleichem, Tevje der milchiker (1894),  qui dalla traduzione italiana di Lina Lattes, Tewie il lattaio, Bollati Boringhieri, Torino 2020

«Sapete, signor Tewje», mi dicono le due donne, «non sarebbe forse una cosa tanto sciocca, se noi, così come stiamo qui ora, salissimo sul vostro carro e voi vi prendeste la briga, non vi sia detto per comando, di portarci a casa, a Boiberik. Che cosa ne dite?».

«La proposta calza», dico, «come il verso che paragona la vita a una pentola rotta: io vengo da Boiberik e voi andate a Boiberik. È come il gatto che nuota sull’acqua!» «Beh? Che male c’è?» dicono. «Non sapete che cosa si fa in simili casi? Un uomo istruito sa come cavarsela: volta il carro e ritorna indietro. Non abbiate paura, signor Tewje», dicono, «potete essere sicuro; se voi, come Dio vuole, ci riportate a casa sane, noi ci auguriamo tante malattie, se voi non sarete ricompensato».

«Parlano aramaico», penso fra me, «non è il parlare di gente comune!» E mi vengono in mente spettri, streghe, spiriti cattivi, colera. «Cretino, figlio di un corvo», penso fra me. «Perché stai là piantato come un chiodo? Salta sulla carrozza, mostra la frusta al tuo cavallo e scappa!».

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