Non si può dire che Sir Arthur Conan Doyle non abbia cercato di liberarsi, e anche con una certa ostinazione, del personaggio che lo ha sì reso uno degli scrittori più noti di tutti i tempi, ma che ha evidentemente finito per surclassarlo quanto a celebrità. Se da qualche raro cenno biografico si apprende che il detective più famoso della storia della letteratura, Sherlock Holmes, è nato intorno al 1854, la sua avventura letteraria «originale» – complessivamente soltanto 4 romanzi e 56 racconti -, si snoda in una prima fase tra il 1887, anno di pubblicazione di Uno studio in rosso e il 1894, quando Conan Doyle, nel racconto L’ultima avventura lo fa morire nelle cascate di Reichenbach, in Svizzera, al termine di uno scontro con il suo nemico giurato, il professor Moriarty. Spinto dall’insistenza dei lettori, e del suo editore, lo scrittore scozzese sarebbe tornato sulla sua decisione, concedendo al personaggio una nuova chance, anche se la storia è cronologicamente inserita prima del mortale duello sulle montagne del bernese, con Il mastino dei Baskerville del 1902, per farlo infine sostenere lo sforzo della Gran Bretagna nella Grande guerra e rimuoverlo definitivamente nel 1927 con la raccolta Il taccuino di Sherlock Holmes.

CIÒ CHE CONAN DOYLE, scomparso nel 1930 a 71 anni, che fu medico e autore prolifico, oltre che delle avventure del celebre detective di dozzine di volumi di ogni tipo che spaziano dalla fantascienza alla storia, dal costume alle scienze, dal pugilato allo spiritismo e che conciliò l’attenzione verso il soprannaturale con l’adesione al positivismo – come illustrato proprio dai metodi di indagine adottati da Holmes -, non seppe probabilmente prevedere è la vastità del lascito che, intorno al personaggio cui era stato legato attraverso tali sentimenti contraddittori, si sarebbe andato depositando. Perché se l’inquilino del 221B di Baker Street a Londra, dove vive insieme al co-protagonista delle sue avventure, il dottor John H. Watson, è un riferimento assoluto per i detective letterari dell’intero Novecento, come Conan Doyle è stato una fonte di ispirazione per i loro autori, nell’ultimo mezzo secolo Holmes stesso ha ricominciato a calcare il palcoscenico dell’indagine poliziesca, attraverso una serie di romanzi apocrifi che non lo hanno solo restituito a nuova vita, ma hanno finito per trasformarlo in uno dei protagonisti della progressiva globalizzazione della cultura popolare. Un nuovo eroe, reinventato ad ogni latitudine e secondo gusti, codici e linguaggi che del personaggio creato da Arthur Conan Doyle oltre un secolo e mezzo fa utilizzano solo quanto ritengono ancora significativo o stimolante. Ma anche quando la prospettiva rivendicata è quella di proseguire il percorso dell’opera originaria, ad essere modificato non è soltanto il paradigma narrativo, ma lo stesso ruolo e impegno del detective che diventa testimone di un mondo nuovo, con esiti inaspettati, bizzarri o sconcertanti.

Inaugurato già negli anni ’50 da Adrian Conan Doyle, figlio di Arthur, in collaborazione con John Dickson Carr, questo filone più in linea con la «tradizione» del personaggio vanta decina di autori che si sono specializzati nella ridefinizione dello scenario nel quale opera Holmes. Per comprendere le dimensioni dell’iniziativa, il Giallo Mondadori che ha lanciato dieci anni fa la serie del «Giallo Sherlock» segnala di aver proposto ai propri lettori «84 autori, 106 romanzi, 58 racconti…». In questo ambito, gli esiti possono essere tra i più diversi. Così Holmes e Watson si trovano a misurarsi con dei classici del mistero come accade in La maledizione della mummia della scrittrice australiana Margaret Walsh o in L’ombra del Golem dell’autore ceco Petr Macek. O con sfide dove la politica si mescola al mondo della cultura, come accade in Una minaccia per l’Impero, firmato dallo statunitense Paul Schullery, dove a varcare la soglia del 221B di Baker Street in cerca di aiuto è un’autentica celebrità. Samuel Clemens, in arte Mark Twain.

Da notare come lo stesso Twain avesse dedicato nel 1902 a Holmes una parodia dal titolo Detective story a doppio fondo (Mattioli1885, 2014), in cui il giovanissimo nipote di Holmes, finito in uno sperduto campo di minatori, decide di far saltare in aria con la dinamite il principale per cui lavora, proprio il giorno in cui, in quell’angolo sperduto dell’America, arriva in visita il celebre zio. Non sempre il detective si trova però dalla parte giusta della barricata, così in Sherlock Holmes e i ribelli d’Irlanda, di Kieran McMullen, anch’egli americano, lui e Watson si trovano a Dublino alla vigilia della Rivoluzione del 1916 ma per cercare di fermare quanto sta per avvenire.

DI SEGNO DIVERSO, gli apocrifi di Sherlock Holmes che si devono a scrittori del calibro di Ellery Queen, autore nel 1966 di Uno studio in nero (Mondadori), romanzo che muove da un manoscritto inedito di Watson dedicato ad un’indagine di Holmes su Jack lo squartatore, o La soluzione settepercento (Mondadori), pubblicato nel 1974 dallo scrittore e sceneggiatore Nicholas Meyer, nel quale il celebre detective cerca di curare la propria dipendenza dalla cocaina grazie all’aiuto di Sigmund Freud. Per non parlare de Il caso del dottore, uno dei racconti della raccolta Incubi e deliri (Sperling & Kupfer), firmata da Stephen King nel 1999 che si affida anche in questo caso alle memorie del Dottor Watson che rievoca quell’unica, indimenticabile volta in cui riuscì a battere sul tempo l’amico nella soluzione di un caso.

Se la narrativa giapponese dei primi decenni del ’900 ha riservato un’attenzione particolare alla genesi del romanzo poliziesco in Occidente, lo scrittore hawaiano Dale Furutani colma un vuoto, immaginando nelle Strane avventure di Sherlock Holmes in Giappone (Marcos y Marcos, 2013), un’indagine sotto mentite spoglie, si finge un esploratore norvegese malgrado il proprio inconfondibile accento londinese, del detective in Estremo oriente, accanto ad un medico locale, il dottor Watanabe. Quanto al drammaturgo brasiliano Jô Soares si è spinto anche più in là con il suo Un samba per Sherlock Holmes (Einaudi, 2001), nel quale il detective, forse a causa di un uso eccessivo di canapa indiana sta rischiando di perdere le proprie note facoltà deduttive, mentre la giovane Anna Candelária attenta alla sua altrettanto leggendaria verginità. Nel Brasile di fine ’800 Holmes dovrà cercare di far luce sul furto di uno Stradivari rubato alla corte dell’imperatore locale, a patto che però ritrovi se stesso. Anche la scrittrice e partigiana Joyce Lussu ha immaginato nel suo Anarchici e siluri (il lavoro, 1982) che Holmes subisse il fascino di Mata Hari mentre indagava su una misteriosa fabbrica di torpedini sottomarine nelle Marche alla vigilia della Prima guerra mondiale.

NEPPURE lo stesso Arthur Conan Doyle è infine rimasto del tutto estraneo alle ripetute indagini narrative che hanno rielaborato la figura del suo personaggio più noto. In L’uomo che odiava Sherlock Holmes (Bur, 2013), Graham Moore, scrittore e studioso dell’opera dell’autore scozzese, analizza attraverso il canone del crime proprio il periodo compreso tra il 1893 e il 1901 durante il quale Conan Doyle immaginò di poter concludere drasticamente la carriera del proprio eroe. Del resto, come Holmes spiega a Watson ne Il segno dei quattro (1890): «Eliminato l’impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile sia, deve essere la verità».