La scena è scarna, come lo è l’interno di un qualsiasi carcere. Sgabelli di legno come muretti, giusto il minimo indispensabile per sedersi a parlare, leggere, scrivere o pensare. O come scalinate, per arrampicarsi quel poco che basta a proiettare lo sguardo oltre il muro dell’incomprensione. Due donne si amano, ma non possono: non è consentito, in quel contesto. C’è chi le odia, chi invece le comprende, chi le invidia, chi non tollera. «Questo non è teatro, non è intrattenimento: è trattamento», fa notare Elena Zizioli, docente di Scienze della formazione all’Università Roma Tre coinvolta nel progetto. E lo si capisce subito che quelle quattro attrici – Bruna Arceri, Alessandra Collacciani, Sara Panci, Daniela Savu, Raquel Robaina Tort, regolarmente retribuite per il lavoro che svolgono sul palcoscenico – più che recitare stanno portando in scena ciascuna la propria rabbia, il proprio amore, la propria gelosia, il proprio ritrovato o riperso equilibrio dentro le mura di una cella.

In un percorso che è iniziato dietro le sbarre, più per noia che per passione, nel braccio femminile di Rebibbia (dove sono recluse 350 donne), ed è arrivato mercoledì scorso alla «grande prima serale romana» nello Spazio Rossellini, quartiere Ostiense, con il sostegno delle Officine di Teatro Sociale della Regione Lazio, della Fondazione Severino e della Fondazione Cinema per Roma, e alla presenza dei Garanti nazionale, regionale e comunale dei detenuti. Loro, le quattro attrici, ora sono più o meno vicine alla libertà, ma con «Ramona e Giulietta (quando l’amore è un pretesto)», tragicommedia ispirata alla celebre opera shakespeariana, scritta e diretta da Francesca Tricarico (prodotta dall’associazione Per Ananke), hanno condotto un po’ dentro le mura di Rebibbia tutti i 400 spettatori, emozionati ed entusiasti.

LA REGISTA FRANCESCA Tricarico ha fatto un grande lavoro con ciascuna di quelle donne, le ha prese per mano fin dal 2013, quando ha scelto di dedicarsi alla sezione femminile dopo l’esperienza nel braccio maschile con lo spettacolo «Cesare deve morire» (portato al cinema dai fratelli Taviani). «Lavorare nel femminile è molto più complicato perché le relazioni sono più complesse. Non è stato facile guadagnarmi la loro fiducia. E per una donna ex detenuta il reinserimento è molto più difficile che per un uomo, lo stigma sociale è più radicato», ricorda Tricarico che nell’Alta sicurezza ha fondato la compagnia “Le Donne del Muro Alto”. «Complice la pandemia, nel 2020, non potendo noi più entrare in carcere, grazie ad un magistrato di sorveglianza illuminato come Marco Patarnello, siamo riuscite a portare fuori da Rebibbia le attrici per l’attività teatrale». Patarnello, presente alla prima serale romana, ha concesso loro addirittura il permesso per una piccola tournée. Perché, come sintetizza bene Francesca Tricarico, «la legge è uguale per tutti, ma non tutti sono uguali davanti alla legge. La giustizia, ricordiamolo, è un’istituzione fatta da persone».

NELL’ANNO in cui si celebra il 40° anniversario del primo spettacolo teatrale allestito in un carcere – «Sorveglianza speciale, di Jean Genet, regia di Marco Gagliardo, con il quale i detenuti di Rebibbia salirono sul palcoscenico del Festival dei Due mondi di Spoleto», come ricorda Daniela De Robert, numero due dell’ufficio del Garante nazionale dei detenuti – a teatro si mettono in scena sentimenti e pregiudizi. «Ramona e Giulietta» racconta di un’affettività che in carcere è negata perfino se si condivide la stessa reclusione. «L’anno prima dell’inizio di questo progetto, a Rebibbia c’era stata la prima unione civile tra donne detenute e la comunità carceraria si era divisa tra favorevoli e contrari – racconta la regista – Abbiamo lavorato su questo, abbiamo preso il testo di Shakespeare e lo abbiamo riscritto, sapendo che il problema era tra chi poteva permettersi di avere un’affettività in carcere e chi non poteva e ne provava invidia».

L’«AMORE SAFFICO» tra Ramona e Giulietta viene sbeffeggiato finché è platonico, «offende» le altre detenute quando diventa fisico. «Qui la gioia e il dolore so’ malattie infettive», è l’avvertimento che rivolge in perfetto romanesco, tra una canzone e l’altra, una compagna di cella a una Giulietta troppo addolorata per essere stata allontanata dalla sua amata dopo una rissa scatenata per un bacio. Ma se Ramona in questo caso non riuscirà, come Romeo, a scavalcare «le mura sulle ali dell’amore», «l’incontro emotivo tra attori e spettatori, consente invece – come dice Francesca Tricarico – di dimostrare che non esiste un noi e un loro, che il carcere è parte della società».