Shakespeare, desiderio e gelosia nei sonetti riordinati
Nicholas Hilliard, Giovane tra i cespugli di rose, ritratto di Robert Devereux, II conte di Essex, 1588, Londra, Victoria & Albert Museum
Alias Domenica

Shakespeare, desiderio e gelosia nei sonetti riordinati

Classici inglesi «Oh, come mi mancano le forze quando di te scrivo»; «Quanto dolce e bella tu fai la vergogna»... L’edizione Edmondson-Wells di «Tutti i sonetti»: traduzione e cura, Silvia Bigliazzi (Carocci)
Pubblicato 14 minuti faEdizione del 6 ottobre 2024

I lettori innamorati dei sonetti di Shakespeare (Sonnets) nell’edizione originaria dell’In-Quarto 1609 (Q1), curata probabilmente da Thomas Thorpe, uomo di teatro ed editore, dovranno affrontare la sconcertante novità del ritrovamento di altri sonetti inseriti nelle opere teatrali e poetiche di Shakespeare, dal 1582 al 1613. I teatri erano stati chiusi a causa della peste, e Master Shakespeare, già in là con gli anni (sarebbe morto nel 1616) fece circolare tra gli amici una serie disordinata di sonetti che poi furono raccolti, ordinati in una plausibile sequenza temporale, e pubblicati col suo nome.

La moda del nobile sonetto italiano, affermatosi con Astrophel and Stella di Philip Sidney, era già tramontata. La nuova forma, che si chiamerà inglese o shakespeariana, chiusa con un distico a rima baciata, è ispirata da un prezioso binomio, «Verità e bellezza», a fondamento dell’arte di Shakespeare. Due secoli dopo feconderà l’immaginazione del giovane Keats. Il 14 è il sonetto profetico: «But my knowledge from thine eyes I derive, / And , constant stars, in them I read such Art / as Truth and Beauty shall together thrive / thyself to store thou would convert; / Or else of thee this I prognosticate: / Thy end is Truth’s and Beauty ‘s doom and date». «Ma dai tuoi occhi traggo la mia conoscenza, / stelle fisse, in cui leggo questo segreto, che verità e bellezza prosperano insieme, / se ti volgessi da te stesso a procreare; / o altrimenti questo io pronostico: / la tua fine è di Verità e Bellezza condanna e termine» (trad. A. Serpieri). Nell’Ode all’Urna Greca Keats ammonisce: «thou sayst / Beauty is Thruth, thruth beauty» «rimani tu sola / ‘Bellezza è Verità’ dicendo ancora / ‘Verità è Bellezza’. Questo, a voi, / sulla terra è dato, questo non altro, a voi, sulla terra è bastante sapere…» (trad. A. Frassineti).

Due eminenti filologi, Paul Edmondson e Stanley Wells, hanno pubblicato All the Sonnets of Shakespeare (Cambridge University Press 2020) e curato in italiano, insieme a Silvia Bigliazzi, Tutti i sonetti (Carocci editore «Lingue e letterature», pp. 524, € 54,00). Silvia Bigliazzi ha svolto l’arduo compito di accogliere il loro testo e gli apparati vari. Vi ha aggiunto la sua ottima traduzione dei sonetti del 1609 (qui citata) con le note linguistiche contribuite dai due filologi, l’indice dei capoversi di tutti i sonetti e l’indice numerico di quelli già noti.

Le numerose traduzioni italiane dei Sonnets, iniziate da Melchiori e Rossi nel 1958, prive della veste sonora originaria – la voce di un oxoniense o di un raffinato attore –, si adagiano sui polisillabi italiani rendendoci familiare l’arduo concettismo shakespeariano. Il testo di Q1 è dinamicamente disegnato da un’idea drammatica di struttura: antefatto, nodo, scioglimento. Nella prima serie, cosiddetta matrimoniale (1-17), il poeta invita il giovane bellissimo (fair youth) a procreare, riproducendo biologicamente la sua bellezza. «Shall I compare thee to a summer’s day? / Thou art more lovely and more temperate». «Dovrei compararti a un giorno d’estate? / Tu sei più bello e più temperato» (son. 18).

Protagonista della terza serie dei sonetti (127-152) è la Dama bruna (Black Dame) che mise in crisi la coppia maschile. «Thine eyes I love, and they, as pitying me – / Knowing thy heart torment me with disdain – / Have put on black, and loving mourners be, / Looking with pretty ruth upon my pain». «Amo i tuoi occhi, ed essi, come a compatirmi – / sapendo che il tuo cuore mi tormenta di sdegno – / si veston di nero e in doglia amorosa / guardano alla mia pena con garbata pietà» (son. 132). Lei li invita alla profonda nera notte della voglia che dilaga e impera, sotto il lascivo comando di Will (son. 135); lussuria che non manca di pietà. Nel mezzo la lunga, inquieta quotidianità dei due amanti: ore trascorse insieme, tradimenti, rimproveri, promesse. «Two loves I have, of comfort and despair, / That like two spirits do suggest me still». «Due amori io ho, per conforto e disperazione, / che come due spiriti mi suggestionano sempre. / Il mio angelo migliore è un bell’uomo, e biondo, / il mio spirito peggiore una donna di mal colore» (son. 144).

Teatrali sono i tre personaggi. La voce che dirige e commenta l’azione è quella dello stesso autore, qui nella figura archetipica e neoplatonica dell’Amante, vecchio, che si rivolge all’Amato giovane di radiosa bellezza a cui i sonetti sono dedicati: forse Henry Wriothesly, efebico, come ci appare nella miniatura che ne fece Nicholas Hilliard. Altro candidato sarebbe William Herbert, conte di Pembroke, anch’egli bello, colto, sensibile. Come ormai riconosciuto nelle biografie shakespeariane, resta non identificata la donna bruna e la sua conturbante nerezza. I tre si atteggiano come derivati dagli archetipi del mito: Venere e Adone, l’Amante che serve come schiavo e l’Amato che lo domina con il suo splendore celestiale. La colpa dell’uno ricade sull’altro, piacere e colpa sono condivisi e cancellati. Hanno controfigure umane reali e conosciute che aumentavano il fascino, l’imbarazzo e la novità assoluta di questa poesia «confessionale» – come ormai è da noi letta.

Tuttavia non mancano stranezze, come il sonetto 143 che mette in scena l’inversione satirica delle nobili passioni celebrate nel palazzo e la loro degradazione ironica e patetica, se vissute in un pollaio. Sonetto mai commentato che per il tono curiosamente bucolico e malizioso, anticipa il gusto del secolo successivo. L’accorta massaia corre ad acchiappare la pennuta creatura ch’è scappata, mentre il suo bimbo negletto piange e grida «torna indietro da me / e fingi d’essere la mamma: baciami, sii buona. / Così pregherò che tu possa avere la tua voglia / se tu torni indietro e le mie alte grida acquieti».

Ci sono attacchi iniziali rivolti a chi legge, quindi anche a noi lettori imprevisti, che suonano vicini e perentori: «Oh, come mi mancano le forze quando di te scrivo», «Quanto dolce e bella tu fai la vergogna», «Per me, dolce amico, mai potrai essere vecchio», «Troppo giovane è Amore per sapere cos’è la coscienza». Un nuovo campo di studi si apre per filologi scrupolosi, ma anche noi lettori comuni potremmo gettare un’occhiata nel laboratorio shakespeariano. Il canzoniere di Shakespeare-Thorpe, da cui l’autore non trasse alcun profitto, di cui non negò la paternità, resta il capolavoro romantico del grande drammaturgo.

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