Ci sono fotografie che fissano nero su bianco scampoli abbaglianti di esistenza poco prima che la luce si spenga per sempre. Tra queste, lo scatto del 1934 che ritrae Stanislaw Ignacy Witkiewicz e Bruno Schulz mentre in compagnia di Roman Jasinski, pianista, e Jan Kochanowski, medico radiologo e fotografo dilettante, improvvisano una scenetta stravagante, il cui senso ora ci sfugge. Possiamo solo avanzare ipotesi su come mai Kochanowski, con la testa avvolta in un asciugamano, cerchi di strangolare «Stas», mentre Schulz si chiude le palpebre con due dita e Jasinski sfoggia un paio di occhi finti – le didascalie strampalate con cui Witkiewicz era solito decifrare le situazioni paradossali che amava impersonare insieme agli amici in questo caso sono infatti andate perdute. Di certo, questi tableaux vivant in chiave dada consegnati all’obiettivo fotografico erano una componente essenziale di quella teatralizzazione della vita quotidiana che Stanislaw Ignacy (alias Witkacy) praticava da almeno da un decennio.

«Non basta esistere così, negativamente, in modo passivo e irriflessivo, occorre manifestare con maggior chiarezza la propria esistenza, sullo sfondo della morte possibile e del nulla che ci circonda», ammoniva lo scrittore che, con il suo «teatro della follia», nonché con il romanzo Insaziabilità (purtroppo ormai introvabile in italiano), aveva tratteggiato negli anni venti i contorni di una morale rovesciata, concepita come oltraggio esplicito al perbenismo borghese. In questa ottica, le «mascherate» con Jasinski e Kochanowski (inscenate spesso nell’abitazione a Varsavia di quest’ultimo, in via Wiejska) erano un laboratorio permanente di immagini grottesche che Witkacy non si limitava a trasporre sulle scene, ma che sfruttava innanzitutto per modellare il personaggio di «pazzo disperato» (così lo definì Witold Gombrowicz) da lui impersonato pressoché ogni giorno. Con effetti sconcertanti che irritavano non solo i filistei, ma a volte perfino – per quanto sorprendente possa sembrare – i colleghi avanguardisti. Emblematico è l’imbarazzo provato dallo stesso Gombrowicz, quando, accompagnato proprio da Schulz, si presentò per la prima volta al cospetto di Witkiewicz: «… la porta si apre e appare un enorme nano, che comincia a crescerci sotto gli occhi… È Witkacy, che ci ha aperto la porta accucciato e piano piano si tira su. Amava fare di questi scherzi. Io però non mi ci divertivo», confessa nella sua autobiografia Una giovinezza in Polonia.

All’insegna del nonsense
Nemmeno il sodale Kochanowski fu particolarmente esilarato – almeno a quanto riferisce Jasinski nelle sue memorie – quando una sera del 1937 il suo appartamento venne invaso da orde di tizi mai visti prima che, animati da un appetito davvero insaziabile, spazzolarono via senza tanti complimenti tutte le scorte alimentari e alcoliche che aveva in casa. Erano dei perfetti sconosciuti invitati da Witkiewicz di sua iniziativa, tanto per vivacizzare la serata.
Ciononostante, gli incontri tra i tre amici si svolgevano in genere all’insegna della concordia e di quella particolare complicità che procura l’immersione volontaria nel nonsense. «All’epoca si divertivano come bambini, inventavano varie scenette, raccontavano storielle buffe, e noi ridevamo finché non ci doleva la mascella o la pancia», ricorderà a distanza di anni Jadwiga Unrug, moglie di Wiktacy. In queste improvvisazioni, in cui Witkiewicz mobilitava i suoi numerosissimi alter ego (Lord Fitzpur, Stanley Ignatio Witkacy, Mahatma Witkac e il compagno Pieriesmerdlow, erano i più ricorrenti), sembra dunque di cogliere quello stesso «sfarfallio di carnevale», quel ritorno alla fanciullezza, «archivio di ogni scoperta», che Angelo Maria Ripellino avrebbe poi notato nei racconti di Schulz.Sorpreso dall’obiettivo fotografico nel 1934 tra i ridanciani frequentatori di via Wiejska, Schulz conosceva in realtà Witkacy fin dal 1925, quando era stato ospite per la prima volta nella sua casa di famiglia a Zakopane, sui monti Tatra.

Proprio qui nel 1930 Witkiewicz gli avrebbe presentato Debora Vogel, poetessa d’origine ebraica che diventò per lui una interlocutrice privilegiata, tanto da persuaderlo a darsi alla scrittura e a mettere finalmente su carta quella che sarebbe diventata la sua prima silloge di racconti, Le botteghe color cannella, testo definito da Witkacy «ai limiti della genialità». Ma, d’altronde, egli apprezzava straordinariamente anche l’opera grafica di Schulz, concepita in perfetta solitudine fin dagli anni venti e raccolta intorno al cosiddetto Libro idolatrico. Non a caso, intervistando il collega per il «Tygodnik powszechny» nel 1935, Witkacy inserì le sue visionarie incisioni in quella linea «demonologica» dell’arte che da Goya giungeva fino a Felicien Rops, Edvard Munch e Aubrey Beardsley e che aveva alimentato in ampia misura la sua stessa opera.

Unica traccia materiale di un divertissement forse casuale, la foto scattata nell’appartamento di Kochanowski a Varsavia ci consegna un’immagine di Schulz che è ben lontana dallo stereotipo dell’«autodidatta di genio, ma avulso dagli ambienti artistici del paese» tramandatoci da molti studiosi. Un luogo comune che trae ovviamente origine dalle radici ebraiche dello scrittore e dalla sua pretesa estraneità al mondo letterario della capitale. Se è certamente vero che Schulz si allontanava a malincuore dalla sua remota cittadina natale, Drohobycz, e vedeva nella solitudine il solo «reagente che conduce la realtà alla precipitazione in immagini poetiche», allo stesso tempo è indiscutibile la sua vicinanza spirituale a quella parte dell’avanguardia polacca più ossessivamente concentrata sull’elaborazione di una propria mitologia personale da contrapporre alla «morta» società borghese. Una ricerca a un tempo esistenziale e estetica che di lì a breve sarebbe stata impietosamente spezzata dalla guerra.

«Sta per infrangersi sotto i nostri occhi l’ultimo baluardo del mondo che tu e io conoscevamo», così scrisse Witkacy all’amico Jerzy Plomienski, poco prima di togliersi la vita il 18 settembre 1939, quando i russi invasero da est la Polonia. Più lenta fu invece l’agonia di Schulz, che nella natia Drohobycz, visse sia l’occupazione sovietica che quella tedesca, per cadere infine il 19 novembre 1942 per mano dello Scharführer della Gestapo Karl Günther, proprio mentre si apprestava a fuggire dal ghetto della città grazie ai falsi documenti «ariani» procuratigli dagli amici di Varsavia.