Dal 21 al 30 agosto del 1950 lo svizzero Carl Gustav Jung, fondatore della psicologia analitica, il rumeno Mircea Eliade, esule a Parigi, l’israeliano, ebreo-tedesco Erich Neumann, allievo ed erede creativo di Jung, parteciparono insieme a un seminario della Fondazione Eranos: la foto li ritrae mentre conversano attorno a un tavolo nel giardino di Casa Gabriella, a Moscia, vicino ad Ascona. Era la prima volta che si incontravano, l’appuntamento si sarebbe ripetuto ancora per due anni, poi Jung, dopo il 1952 non riuscì più a partecipare.

Dalla foto si vede che è Jung a tenere banco, e non solo per esuberanza personale. Come scrisse Henry Corbin, per venticinque volte relatore dal 1949 al 1976: «Lo spirito di Eranos era nutrito e confortato dagli scambi di vedute tra quelli che ne formavano il circolo, simbolizzato dalla nostra Tavola Rotonda sotto il cedro ( …) C. G. Jung ne fu per anni qualcosa come il genio tutelare».
L’interesse antropologico
L’invenzione del nome Eranos (in greco significa un banchetto festivo al quale i convitati contribuiscono portando ognuno qualcosa) fu di Rudolf Otto, filosofo della religione, che la suggerì a Olga Fröbe Kapteyn, la proprietaria delle ville sulla riva del lago Maggiore che ancora oggi sono la sede della Eranos Foundation. Musa ispiratrice e formidabile organizzatrice dal 1933 fino alla sua morte nel 1962, Olga Fröbe-Kapteyn fece di Eranos l’opera della sua vita, insieme all’Archivio per la ricerca sul simbolismo delle immagini, una raccolta iniziata su richiesta di Jung, ampiamente utilizzata da Neumann, da Eliade e da molti altri. Nel 1939 furono presentate a New York trecento immagini sulla «Grande Madre», e pochi anni fa Massimiliano Gioni le usò come introduzione alla sua mostra con lo stesso titolo, a Milano. Oggi l’Archivio fa parte delle collezioni del Warburg Institute a Londra.

Tutti e tre – Jung, Neumann e Eliade – pensavano che il centro delle loro ricerche, il cui interesse fu soprattutto antropologico, potesse trovarsi nelle immagini simboliche archetipiche, tanto più se si volevano studiare e comprendere culture e spiritualità lontane nel tempo, nello spazio e nelle forme espressive. Jung si riferiva a immagini che nascono e rinascono spontaneamente, cioè indipendentemente dalla trasmissione e dallo scambio culturale, come variazioni su un tema comune sollecitato da situazioni idealtipiche, soprattutto i momenti di crisi e di passaggio nella vita dei singoli e nella storia delle collettività.
Il loro aspetto particolare muta con le vicende e le culture di appartenenza, ma la funzione delle immagini archetipiche, rispetto ai cosidetti patterns of behaviour, ovvero i modelli di comportamento, rimane la stessa: per esempio, la dipendenza dalla madre e dal materno, l’alternativa tra fuga e combattimento, la continuazione della vita dopo perdite significative. Quelle a cui pensa Jung sono immagini originarie, non ripetizioni di qualcosa passibile di venire predeterminato: si riformulano ogni volta, come rinascendo da qualcosa, l’archetipo, che rimane, in se stesso, inafferrabile. È una ipotesi concettuale derivata dall’empiria della comparazione transculturale e transpersonale: le immagini possiedono quindi una certa potenzialità creativa, che tuttavia dipende anche dalla risposta che sappiamo dar loro, impegnandoci in forme di espressione e di rielaborazione. Nascita e morte, pace e guerra, appartenenza e distacco …
Ci sarebbe quindi nella specie umana una disposizione comune, una sorta di requisito trascendentale capace di produrre immagini che rielaborano questi temi variandoli a secondo delle circostanze e che è dunque indifferente alle appartenenze etniche, sociali o di genere.

La ricerca sul simbolismo delle immagini archetipiche consentì di riunire saperi spesso confinati in specialismi disciplinari, e di offrire un terreno di intesa possibile in tempi di guerra, di imperialismi culturali e di ostinati pregiudizi circa la superiorità di alcune civiltà sulle altre. Ma tutte le testimonianze convergono nel sottolineare come i seminari di Eranos fossero vissuti soprattutto come una opportunità di condivisione, di affinità e di confronto personale da parte di ricercatori idealmente uniti da una sorta di Graal spirituale, come gli antichi cavalieri ai quali si richiamava la loro tavola. Le immagini archetipiche consentivano, anzi richiedevano, una relazione che andasse al di là della conoscenza accademica, e di proposito sconfinasse nella interrogazione esistenziale.
Esperienze del sacro
A pochi chilometri di distanza, quasi sopra i giardini dei convegni, era nata e si era sviluppata la comunità di utopisti, naturisti e teosofi del Monte Verità, dove si ritrovarono Pëtr Alekseevich Kropotkin, uno dei primi sotenitori dell’anarco-comunismo russo, il poeta e attivista anarchico Eric Mühsam, Isadora Duncan, lo psicoanalista austriaco Otto Gross, August Bebel, una rutilante sperimentazione di modi di vita che, spentisi lassù negli anni nei quali prese forma Eranos, furono all’origine di molte ribelli forme di vita negli anni sessanta.

Per Otto e per Jung ciò con cui confrontarsi, se si vuole dare senso all’esistenza e agli sforzi della ricerca per comprenderla, è l’esperienza del numinoso, cioè del sacro: nel pensiero di Otto è un chè di irriducibile alla sola ragione, capace di affascinarci, ci attrarci, ma che al tempo stesso ci appare tremendo e insostenibile: è l’esperienza dell’Altro, anzi del totalmente Altro. Quanto a Jung, non separò mai il suo interesse per la cura della psiche dalla ricerca del senso, e l’indagine sul significato dallo scandaglio dell’inconscio. Nel 1945 scrisse allo psicologo inglese P. W. Martin: «L’interesse principale del mio lavoro non risiede nel trattamento delle nevrosi, ma nell’accostamento al numinoso. Il fatto è però, che l’accesso al numinoso è la vera terapia, e nella misura in cui si arriva all’esperienza numinosa si è salvati dalla maledizione della malattia».

È chiaro come l’ipotesi archetipica saggiasse le sue capacità euristiche proprio sul terreno preferenziale dello studio del simbolico, della ritualità e della mitologia. Ed è evidente come emergano prepotentemente, e a volte pericolosamente, le conformazioni dell’inconscio collettivo e personale proprio e soprattutto quando si nega al «sacro» ogni funzione nella ricerca del senso.
Mircea Eliade, al centro della tavolata ritratta nella foto, si trovava a condividere, da una prospettiva disciplinare e personale diversa, gli stessi interessi nel campo dell’antropologia e della storia delle religioni. D’accordo con Jung, anche Neumann approfondiva la lezione del maestro cercando i nessi tra ontogenesi e filogenesi, tra psiche individuale e storia delle culture; ma insistette anche sulla possibilità di delineare quella «nuova etica», che sarebbe poi confluita in un suo libro fondamentale del 1948, Psicologia del profondo e nuova etica.

Quanto alla impostazione archetipica del confronto, le differenze tra Jung ed Eliade sono nette. Già nel 1937, in un testo uscito in rumeno e tradotto poi in inglese con il titolo Cosmology and Babylonian Alchemy, Eliade aveva usato il concetto di archetipo, riprendendolo poi nel Mito dell’eterno ritorno, pubblicato nel 1945 e nel 1949, che portava il sottotitolo: Archetipi e ripetizione. Le coincidenze sembrano dunque molte, e probabilmente interessarono soprattutto gli anni dell’incontro con Jung. In realtà lo storico rumeno, nei suoi scritti posteriori sullo yoga, rovescia l’impostazione di Jung e fa dell’inconscio quasi una simulazione – una imitazione «scimmiesca» – della funzione archetipica che, invece, sarebbe in un rapporto ontologico con diverse dimensioni di realtà – al modo di Platone e di Agostino – connettendo l’esperienza esistenziale con elementi strutturali del fenomeno religioso.

Chi fa scienza delle religioni deve descriverne gli aspetti morfologici fondamentali, appunto archetipici o, come dirà per cercare di evitare confusioni, «paradigmatici». In una lettera scritta a Eliade nel 1954, Jung si sarebbe poi lamentato per questa «grave» incomprensione della sua teoria.
Al di là delle diversità e delle controversie sul termine, resta che il fuoco archetipico riuscì a raccogliere, attorno alla tavola di Eranos, per più di dieci giorni, tutte le estati, una incredibile compagine di studiosi: psicologi e storici delle religioni occidentali e orientali, filologi e archeologi, filosofi e teologi, antropologi, fisici, matematici, biologi. Oltre ai tre ritratti nella fotografia di questa pagina, parteciparono, fra i molti altri, Von Franz e Hillman, Kerényi, Zimmer, Buber, Scholem, Massignon, Corbin, Wilhelm, Suzuky, Tillich, Plessner, Löwith, Hadot, Schrödinger, Portmann. Di questa storia affascinante ha raccontato il volume 92 della rivista americana Spring del 2015, curata da Riccardo Bernardini, autore anche di un volume titolato Jung a Eranos. Il progetto della psicologia complessa (Franco Angeli, 2011).

Venticinque anni dopo
Un Genio Loci Ignoto, cui Jung e Van der Leeuw immaginarono di dedicare un monumento, sembrò attirare per tanti anni ad Ascona alcune tra le menti migliori del Novecento. Nel ‘57, per il venticinquesimo anniversario di questi incontri, Jung scrisse: «La luce dello spirito europeo, che ha brillato da Eranos in così tanti anni durante questi tempi oscuri, possa ancora avere il dono di una lunga vita, così che possa giocare il suo ruolo di esempio, di guida luminosa, di una Europa unita».