Non è solo una topografia dell’anima quella che prende corpo nei romanzi di Anthony Cartwright. Lo scrittore di Dudley, nella Black Country delle Midlands, non lontano da Birmingham, dove si sono scritte alcune pagine fondamentali dello sviluppo industriale e poi della fine del mondo operaio della Gran Bretagna, sa raccontare con la giusta dose di rabbia e tenerezza le gesta degli sconfitti, dei protagonisti di vicende che sebbene li abbiano visti spesso soccombere, non li hanno mai domati definitivamente. Una sconfitta da cui prima o poi ci si potrà rialzare. Questo lo spirito che aleggia anche in Come ho ucciso Margaret Thatcher, terzo libro di Cartwright, uscito nel 2012 a Londra e proposto ora da Alegre nella traduzione di Alberto Prunetti (pp. 248, euro 17), sorta di romanzo di formazione imperniato sulla figura del giovane Sean Bull, e la sua famiglia di tradizioni operaie e laburiste, all’ombra dell’immagine sinistra della Lady di ferro. Tra gli ospiti della seconda edizione del Festival di letteratura working class di Campi Bisenzio, Cartwright interverrà domani alle 16,30 alla ex Gkn.

«Come ho ucciso Margaret Thatcher» non è il suo primo romanzo, ma gli anni ’80 e la svolta negativa che la Lady di ferro ha impresso alla società britannica sono al centro di tutte le sue opere: cosa rappresenta per lei quella fase?
Anche se si tratta di storie che ruotano intorno a personaggi e luoghi specifici (di solito la città di Dudley), gli anni ’80 funzionano come una sorta di chiave di volta per la maggior parte dei protagonisti di quanto scrivo: le loro vite si svolgono sempre prima o dopo gli anni di Thatcher. I miei primi due romanzi erano ambientati nel 1995 e nel 2002, ma guardavano agli anni ’80 in forme diverse. Con questo libro ho voluto invece affrontare quel periodo in modo diretto. Questo sentimento di un prima e un dopo gli anni ’80 vale per molte persone cresciute nelle vecchie aree industriali del Regno Unito: che fossero bambini o adulti all’epoca. Io, che sono nato nel 1973, già allora ero consapevole, proprio come accade al personaggio di Sean Bull nel romanzo, che il futuro verso cui pensavamo di andare era stato completamente trasformato dalle politiche di Margaret Thatcher.

Lo scrittore Anthony Cartwright

A fare da contraltare alle vicende dei protagonisti, ogni capitolo si apre con una frase della Lady di ferro, perché?
Nella storia contemporanea della Gran Bretagna c’è stata una figura politica altrettanto dominante? Forse per un po’ soltanto Tony Blair. All’epoca, la voce di Thatcher era ovunque e volevo trasmettere quella sensazione: volevo che la sua voce emergesse come una sorta di colonna sonora della vita di tutti i giorni, trasmessa dalla radio e dalla televisione. Una voce strana: fragile, con un accento curioso e teso. E ciò che diceva era straordinario, a volte in completo contrasto con ciò che intendeva effettivamente fare, a volte così bizzarro e sconvolgente come nel celebre discorso durante il quale affermò che «la società non esiste» (1987). Qualcosa di «orwelliano», anche se si tratta di un aggettivo abusato nel linguaggio politico. Del resto, non sono stato il solo a ricorrere a questo espediente: in Hunger, il bellissimo film di Steve McQueen su Bobby Sands e gli scioperi della fame dei prigionieri dell’Ira, sentiamo la voce disincarnata della Thatcher trasmessa dalla radio.

Il protagonista spiega che Thatcher ha cercato di ucciderlo, non solo con le sue politiche, ma dividendo al proprio interno il mondo operaio nel quale è cresciuto: prima della chiusura delle fabbriche, è stato inseguire un sogno impossibile da ceto medio a segnare la crisi della working class?
Tra le cose più ingegnose del thatcherismo c’è stato il modo in cui ha rielaborato la politica del divide et impera dell’establishment britannico (sia nei confronti del suo impero che delle classi lavoratrici interne) per colpire direttamente al cuore il senso di comunità e di identità che si esprimeva nelle regioni operaie. Si tratta di divisioni con cui conviviamo ancora. E credo che la sua arma di maggior successo sia stata la proprietà della casa. Mi spiego. Svendendo l’edilizia popolare e dando il via a un boom dei prezzi delle case, interi gruppi di persone, soprattutto nelle zone operaie vicino a Londra, come l’Essex, sono stati catapultati in una sorta di ricchezza che era inimmaginabile solo dalla generazione precedente. Per questo al centro del romanzo c’è il tema degli alloggi: prima comprare e poi mantenere una nuova casa da parte dei genitori di Sean, è una delle principali cause di angoscia. Ciò che il «diritto all’acquisto» (la svendita dell’edilizia pubblica) e l’insieme delle politiche abitative di Thatcher hanno messo in piedi, era un sistema in cui dovevano esserci necessariamente vincitori e vinti. A volte si trattava di individui e singole famiglie, a volte di intere regioni. L’attuale crisi immobiliare affonda le radici negli anni ’80, così come l’impoverimento di alcune zone e città del Paese. Ed è la proprietà della casa e il rapporto che si ha con questo tema, a pesare di più nelle diverse intenzioni di voto: non la classe, l’età, l’istruzione, l’etnia o altri fattori demografici.

Nessuno ha ucciso Margaret Thatcher, ma la politica che ha incarnato, il «neoliberismo», ha cancellato un pezzo della società britannica: questo è il romanzo di una sconfitta?
Assolutamente. Forse mi sento più a mio agio a dirlo come romanziere che se fossi un politico. Il fatto che abbiamo perso – nello specifico, elezione dopo elezione, lo sciopero dei minatori (all’epoca) e così via o, più in generale e genericamente, la solidarietà della classe operaia, la fede nella comunità e nella ricchezza comune e nella proprietà pubblica, un certo tipo di futuro – è chiaro. Se viaggi sui nostri autobus, usi le nostre biblioteche, hai bisogno dei servizi sociali, vai a scuola o hai un appuntamento in ospedale, vedi quella sconfitta consumarsi sotto i tuoi occhi. L’intero progetto neoliberista si basa su vincitori e vinti. Se molti di noi riconoscessero la sconfitta all’interno di questo sistema, forse potremmo iniziare a cambiarlo: ripartire per vincere, tanto per cambiare.

In un celebre studio su una comunità mineraria dello Yorkshire, «Una vita per il carbone» (1976), tre sociologi spiegavano come il senso di appartenenza alla classe operaia in Gran Bretagna avesse a che fare con una dimensione antropologica prima che politica: anche nella Black Country?
Certo. Penso che il senso di appartenenza: a una classe sociale, a un luogo, all’idea di azione collettiva e a una comunità, a elementi della tradizione, siano ciò che il thatcherismo ha cercato con successo di avvelenare. Nel romanzo, è a ciò che Sean sente di essere legato; lui non ha alcun desiderio di diventare «classe media», qualunque cosa ciò possa significare. Credo che questo sia anche il tipo di spirito che si respira nelle pagine di scrittori della working class come Alan Sillitoe o James Kelman. Storie della classe operaia che non sono interessate ad alcuna «fuga» dalla classe operaia. Sono consapevole che questa può rivelarsi come una dimensione «a doppio taglio»: qualcosa di nostalgico, rivolto al passato, una cultura dominata da interessi bianchi, maschili, etero, ristretta in molti sensi – per me questo è sia un rischio artistico che politico – e che forse offre qualche spiegazione al fascino del nazionalismo e dell’estrema destra in aree che in precedenza votavano per il Labour. Per questo ritengo che si debbano conciliare le preoccupazioni della sinistra contemporanea con la memoria dello specifico contesto delle regioni industriali del Paese, ma ci vorrà uno sforzo enorme e un cambiamento epocale dell’attuale ordine politico.

Lei sarà domani all’ex Gkn al Festival di letteratura working class: quale è la sua definizione di questo «genere» letterario, e lo considera soltanto tale?
Sarò presente in solidarietà con ciò che i lavoratori stanno cercando di ottenere. Per quanto riguarda il «genere», penso che può essere utile come termine fintanto che manteniamo e accettiamo una fluidità e pluralità all’interno della forma e accettiamo anche che non tutti gli scrittori provenienti da ambienti operai vorranno scrivere di argomenti politici o di classe. Però immagino che nel clima attuale, la creazione di arte da parte di chi proviene da un background operaio sia intrinsecamente politica, forse lo è sempre stata. Quindi, solidarietà, pluralità, sfida, celebrazione e un elemento di contraddizione (tornando a Sillitoe di tanti anni fa: «Qualunque cosa pensi che io sia, è quello che non sono»).