È il 1 dicembre 1938, quando Aleksandr Nevskij viene presentato a Mosca, subito accolto con grande favore dal pubblico e dai vertici del partito. Con questo suo primo film sonoro, Sergej Ejzenštejn torna alla regia quasi dieci anni dopo il suo ultimo lavoro, Il vecchio e il nuovo (1929) e una lunga serie di progetti falliti: i film scritti e mai realizzati, come Una tragedia americana, tratto dal romanzo di Theodor Dreiser; quelli girati e mai montati, come Que viva Mexico!; quelli perduti in circostanze misteriose come Il prato di Bezin.

Per questa e altre ragioni analoghe, gli anni Trenta sono per Ejzenštejn un periodo di grande crisi personale e professionale, determinata da una radicale trasformazione della situazione politica e culturale in Unione Sovietica, della quale il regista si rende immediatamente conto, di rientro dal suo lungo viaggio attraverso l’Europa, gli Stati Uniti e infine il Messico.
Negli anni della sua assenza, in patria, tutto è cambiato: persino la rivoluzione sembra, quando Ejzenštejn torna a Mosca, nel 1933, ormai un ricordo lontano, proprio come il cinema che l’ha raccontata e che pare a molti un traguardo ormai superato, da cui occorre prendere le distanze.

Le esigenze a cui l’arte deve rispondere non sono più quelle intercettate dalle Avanguardie: non è necessario continuare a dar voce alla causa rivoluzionaria, quanto piuttosto cominciare a raccontare la vita quotidiana del cittadino sovietico medio, assimilabile a quella di un qualsiasi spettatore cinematografico. All’ideologia dell’uomo comune, si associa la retorica del richiamo alla tradizione russa e ai valori della nazione, utili a sostenere e rafforzare sempre di più il culto della personalità di Stalin.

A questi principi deve richiamarsi il cinema di cui si parla nel corso della «Prima Conferenza dei lavoratori della cinematografia sovietica», che si tiene a Mosca nel gennaio 1935 (un anno dopo la Conferenza degli scrittori, voluta da Maksim Gor’kij).

In quella occasione, infatti, viene battezzato il «realismo», insieme a una generazione di giovani registi – fra di loro i fratelli Vasil’ev, autori del film divenuto simbolo di questo nuovo modo di concepire il ruolo del cinema, Chapaev (1934) – pronti a dichiarare conclusa la grande stagione avanguardistica, di cui Ejzenštejn – insieme ad altri – era stato uno dei protagonisti.

È chiaro, già nel corso di quella famosa Conferenza, che per raggiungere i risultati sperati è necessario ridimensionare drasticamente il ruolo che, per tutti gli anni Venti, la cosiddetta «scuola sovietica» ha attribuito al montaggio, in quanto primo principio costruttivo del film, e prediligere, al contrario, una struttura lineare del racconto cinematografico, molto più simile a quella che era in uso da decenni, nel cinema americano. D’altro canto, accade un po’ ovunque che l’arrivo del sonoro riproponga la questione della centralità della narrazione, come priorità assoluta anche per un’arte fondata sull’immagine, come il cinema.

Ed è infatti per questo stesso scopo che il sonoro viene utilizzato, con qualche anno di ritardo, anche in molti film girati in Unione sovietica, nella seconda metà degli anni Trenta: come strumento che, in questo caso specifico, punta a consolidare la vocazione realista del cinema post-avanguardista, o potremmo anche dire «stalinista».

Intorno alle possibilità aperte dall’avvento del sonoro, si giocano in Unione Sovietica due modelli di cinema opposti: uno maggioritario, in linea con i dettami del cosiddetto «realismo socialista», l’altro minoritario, che cerca ancora la strada per sperimentazioni possibili. In pochi, in verità, si sottraggono all’impero della nuova idea dominante di cinema: ci prova Boris Barnet in un film del 1932, Sobborghi, usando il sonoro in chiave apertamente espressiva e anti-naturalistica, nella direzione che Ejzenštejn, Pudovkin e Aleksandrov avevano teorizzato nella loro Dichiarazione sul sonoro (1928), già alla fine degli anni Venti. Per altri, come per esempio Aleksandr Medvekin – che, ancora nel 1935, realizza un film muto come La felicità – il rifiuto del sonoro è il modo per (ri)pensare il realismo in senso «magico», diversamente da quanto imposto, come vero e proprio paradigma, da Gorkij e dai suoi epigoni.

Per Stalin e non

Il ritorno di Ejzenštejn alla regia si inscrive dentro questo scenario. Per certi versi, Aleksandr Nevskij è una risposta fedele alle istanze del realismo socialista: il racconto delle vicende del grande e coraggioso principe che, intorno al 1240, riuscì a difendere il paese dall’avanzata dei Cavalieri Teutonici e a porre le basi per la fondazione della grande Russia, non può non suonare come un modo per incensare l’operato di Stalin, ed esaltarne il profilo e la statura politica. La circostanza per cui Ejzenštejn ricevette, nel febbraio del 1939, l’Ordine di Lenin (la più alta onorificenza prevista, allora, in Unione Sovietica) conforta nell’idea che la decisione di girare il film rispondesse, prima di ogni altra cosa, all’esigenza di uscire dall’ombra in cui era finito per molti anni, prima dell’uscita di Aleksandr Nevskij. Per questa ragione, Ejzenštejn sarebbe stato successivamente accusato di avere cercato un compromesso con il potere, per garantirsi uno spazio minimo di libertà creativa: il che è senz’altro vero. Ma le cose si complicano, se non ci lasciamo sfuggire il modo in cui Ejzenštejn lavora, qui per la prima volta, con il sonoro.

Scritti teorici

Se è vero infatti che, quanto alla storia che decide di raccontare, il film è senza dubbio influenzato dall’egemonia che il realismo socialista è riuscito a conquistare, al cinema come in letteratura non altrettanto si può dire se si guarda al modo in cui quella storia è raccontata, soprattutto grazie a quello strumento nuovo – il sonoro, appunto – che costringe Ejzenštejn a rimettere in discussione l’idea di montaggio su cui a lungo, per tutti gli anni Venti almeno, si era soffermato.

Come già in altre occasioni era accaduto, l’uscita di Aleksandr Nevskij è accompagnata da una serie di scritti che forniscono una base teorica alla pratica registica; in questo caso specifico, mettono a fuoco il concetto di «montaggio verticale», a partire dal quale il primo film sonoro di Ejzenštejn è costruito. È a questo punto che la strada intrapresa da un film come Aleksandr Nevskij si separa dal cinema del realismo socialista: tornare a individuare nel montaggio – anche in questa forma aggiornata – il principio costruttivo del film significa recuperare la parte migliore dell’esperienza avanguardistica che in molti avrebbero voluto considerare definitivamente superata.

La posizione anti-realista di Ejzenštejn è chiara: «L’arte comincia propriamente solo a partire dal momento in cui l’associazione tra il suono e la rappresentazione visiva non è più semplicemente registrata secondo il rapporto esistente in natura, ma è istituita secondo il rapporto richiesto dai compiti espressivi dell’opera» (Il montaggio verticale, 1940).
Questo tipo di convinzione fonda il rapporto di collaborazione fra il regista e Sergej Prokof’ev, autore delle musiche di Aleksandr Nevskij. Insieme i due progettano una complessa partitura audiovisiva, in cui le inquadrature procedono l’una dopo l’altra «conformandosi plasticamente al movimento della musica e viceversa».

Politica della forma

Suoni e rappresentazioni entrano così in relazione solo in virtù di un lavoro di messa in forma che rende possibile la costruzione di una immagine a più dimensioni, in cui traccia visiva e traccia sonora non esistono più ciascuna per sé, ma unicamente nella loro fusione. È in questa immagine che va rintracciato il senso generale dell’opera d’arte, che non può mai limitarsi a rappresentare il reale, ma anzi deve aspirare a costruirlo, a immaginarlo diverso da ciò che è. Sostenere un’idea del genere non era scontato, in piena epoca staliniana, anzi. In essa risiede il valore più profondo e ancora molto attuale del cinema politico ejzenštejniano.

 

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La musica e la partitura filmica

di Dino Villatico

Lo schermo inquadra le colline della steppa russa disseminata di teschi e di scheletri dentro i quali beccano i corvi. L’attacco della cantata di Prokofiev, indimenticabile, coincide con l’inizio dell’Aleksandr Nevskij. Sul tremolo degli archi e il pedale delle tube, i legni intonano un motivo allucinato in do minore. Ancora oggi il film di Sergej Ejzenštejn è un capolavoro che ha molto da dirci sulla costruzione di un’opera d’arte.

La musica che Prokofiev compose si integra perfettamente nella concezione di una sorta di partitura filmica, immagine e frasi musicali si corrispondono e si completano (come qui sopra ha spiegato bene Alessia Cervini). Insieme, i due artisti progettano una complessa partitura audiovisiva, in cui le inquadrature procedono l’una dopo l’altra «conformandosi plasticamente al movimento della musica e viceversa», scrisse Ejzenstejn: una complementarietà che non si è resa manifesta nella esecuzione del Teatro dell’Opera di Roma, martedì scorso, perché per ognuno dei sette quadri che compongono la cantata, tratti da diversi momenti del film – che non era, ovviamente, il protagonista della serata – sono stati proiettati spezzoni del film stesso non sempre in sincronia con la musica.

Allora, invece, pur cedendo all’esigenza di risultare popolari e comprensibili, Ejzenstejn e Prokofiev non rinunciarono alle conquiste formali dell’avanguardia e dunque alla coerenza tra immagine e musica. Sta qui il loro grande insegnamento. Dal punto di vista musicale, l’interpretazione di Michele Mariotti è stata eccellente. Intensa la partecipazione del mezzosoprano Ekaterina Semenchuk, così come del coro e dell’orchestra.

A seguire, la Quarta Sinfonia di Ciajkovksij – la più irrisolta, anche dal punto di vista della interpretazione dell’orchestra e della direzione, – di certo la più contraddittoria del compositore russo, che sembra animato da una sorta di furore autodistruttivo. Splendide idee musicali paiono nascere dal niente, per ritrovarsi poi disgregate, dissolte, o urlate fino allo spasimo. Sempre tuttavia, con rigore costruttivo, con sapienza formale. Un grido, quello di Ciajkovksij, tipicamente russo, dostoevskiano.

La scrittura risale, peraltro, a anni cruciali –fra il 1877 e il 1878 –nell’intervallo fra l’entrata in scena di due donne, la contessa Nadezda von Meck, che sarebbe diventata la sua mecenate, e con la quale il musicista – come racconta bene Oreste Bossini nel programma di sala – avrebbe avviato uno spumeggiante carteggio, e Antonina Ivanovna, che divenne sua sposa e sua vittima sacrificale. E la sinfonia, si conclude, non caso, con un irrisolto e chiassoso Allegro con fuoco.