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Sergei Loznitsa, la Storia come tragedia e come farsa

Sergei Loznitsa, la Storia come tragedia e come farsa

Il saggio Il regista ucraino protagonista all’Idfa di Amsterdam con «Babi Yar» e «Mr. Landsbergis»

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 4 dicembre 2021

Tra i cineasti in attività Sergei Loznista è tra i più metodici e rigorosi. Matematico (cibernetica) passato al cinema, da più di vent’anni sviluppa sistemi complessi di analisi e controllo dell’immagine sonora in movimento applicandone l’efficacia a una rilettura critica della Russia moderna all’interno di una specifica prospettiva storica.

Ucraino nato in Bielorussia, passato a Mosca per la formazione e l’inizio della carriera cinematografica, si stabilisce in Germania all’inizio degli anni Duemila dando avvio a una solida rete di coproduzioni. Tra i paesi coinvolti spiccano l’Olanda – dove il lavoro di Loznitsa è stato costantemente sostenuto e promosso – e più recentemente la Lituania. Uno dei più importanti e più vasti festival di cinema documentario del mondo è l’IDFA di Amsterdam e dopo ripetute selezioni, per l’edizione di quest’anno ha invitato Sergei Loznitsa con ben due film: Babi Yar. Context è stato inserito nel prestigioso canone dei Masters, mentre il più recente e ancora inedito Mr. Landsbergis è stato presentato nel Concorso Internazionale vincendo il Premio per il miglior film.

Nel 2005 Blokada, epopea tragica sull’assedio di San Piertroburgo durante la Seconda Guerra Mondiale, apre la serie di film d’archivio che l’ucraino costruisce recuperando e manipolando i materiali documentaristici degli archivi di stato ex sovietici, restaurandoli e sonorizzandoli, grazie al fondamentale apporto del fonico V. Golovnitski.

All’ultima edizione del Festival di Cannes, per la prima volta Fuori Concorso, Loznitsa ha presentato il nuovo capitolo di questa sua sempre più vasta indagine storica sull’Unione Sovietica riconnessa al presente e proiettata sul mondo a venire, osservata come macrosistema emblematico delle dinamiche che sottendono il rapporto tra le masse e il potere nel mondo moderno.

Il fosso di Babi Yar
Babi Yar. Context segue il lavoro già iniziato sviluppandone brillantemente, tanto sul piano estetico quanto su quello teorico, le istanze fondanti e le aspirazioni. E dopo l’ipnotico pamphlet poetico di State Funeral – fin qui forse il più denso e stilizzato cimento del cineasta ucraino -, apice di una parabola poetica e politica, Loznitsa sembra ripartire dal recupero di forme e argomenti già affrontati in quel primo Blokada e in altri film successivi, usandoli come cardini di una nuova e ulteriore evoluzione del discorso. In un kolossal geometricamente ordinato, tra un incipit antiepico e un epilogo tragico, sono disposti due movimenti che, come in un maestoso impianto sinfonico, si specchiano l’uno nell’altro tra ripetizioni e rovesciamenti, variazioni e accumuli: tra il ‘41 e il ’43 le terre e le popolazioni ucraine sono prima sottratte dai nazisti tedeschi ai russi sovietici, immediatamente convertite al dominio del Reich, per poi essere riconquistate e ricondotte all’iniziale dominazione staliniana. Al centro l’evento lancinante: il massacro del fosso di Babi Yar, nei pressi di Kiev, dove, nel settembre del ’41, decine di migliaia di cittadini ucraini d’origine ebrea furono sterminati e sepolti e poi, a distanza di molti mesi – per evitare fossero scoperti dalle truppe sovietiche in procinto di riprendere la regione – dissepolti e bruciati.

Il congegno cinematografico del film si fonda sugli assi ormai consolidati: la tecnica – della manipolazione/combinazione delle immagini da una parte, della tessitura sonora composta quasi completamente ex novo ed ex-post dall’altra – accuratamente mirata nella direzione di una forma che colpisca prima di tutto i sensi, la percezione dello spettatore, immerso in un presente illusorio eppure tangibile; di qui, immediata, l’esperienza scioccante dell’emozione che apre discretamente la strada al pensiero, in una stringa quasi ejzenstanjana. Teorie di corpi e di volti, di gesti e di sguardi, si stendono intorno ai movimenti delle masse (il popolo e i militi), alle liturgie del potere e al dispiegamento simbolico della propaganda: in mezzo ad essi, come acuti eclatanti e come pause di silenzio che rompono la continuità ordinata, alcuni momenti cruciali sui quali fermarsi.

Dei massacri testimoniano laconicamente solo poche, opache immagini, fotografie sulle quali Loznitsa sceglie di soffermarsi, inserendole nel tempo di durata del film, lasciando che sotto di loro una colonna di suoni elementari e quasi impercettibili le tenga dentro allo scorrere della Storia, le confermi parti effettive dello stesso e unico movimento temporale al quale appartengono e nel quale abitano anche gli spettatori. E torna in mente Portret, corto sperimentale degli inizi della carriera, uno degli ultimi girati in pellicola, costruito come raccolta di ritratti «cine-fotografici», muti e immobili, animati solo dal tempo del cinema.

Dopo il ritorno dei sovietici e la fine della guerra iniziano i processi intorno ai crimini nazisti presso diversi tribunali. Come nel recente Prozess, si assiste alle deposizioni testimoniali di individui che fronteggiano i giudici in mezzo alla platea popolare. Il professor Vladimir Mikhailovich Artobolevsky ricostruendo i ricordi di quei giorni, descrive l’immagine di una vecchia donna ebrea disperata e sola: non le parole, ma solo la possibilità di imprimere nella materia la violenza dell’emozione potrebbe, dice il professore, spiegarne la terribile e oscura potenza.

Infine, come succedeva già in Blokada, il popolo liberato si raduna in massa intorno al rituale dell’esecuzione dei nemici (interni o esterni poco importa) innalzati sui patiboli e impiccati, partecipando con entusiasmo allo spettacolo della violenza.
Loznitsa – mai così pienamente narrativo – usa molto più abbondantemente del solito didascalie piene di date, nomi, dettagli, coordinate, forse perché il suo nuovo film è anche un’istruttoria articolata e dettagliata, una ricognizione che aggiunge un livello ulteriore alla riflessione storica fin qui sviluppata: come già in passato, Loznitsa capovolge e rovescia le immagini prodotte dal potere a scopi propagandistici per esporre alla considerazione dello spettatore i rapporti di forza, le tensioni e le reciproche rispondenze tra comandante e comandato, tiranno e tiranneggiato, padrone e suddito; la rappresentazione della vittoria e dell’instaurazione di un nuovo dominio si ripete quasi identica satiricamente scoprendo la somiglianza dei due opposti regimi e della comune forma di governo attraverso l’amministrazione della violenza, il ripetersi dell’addomesticamento della massa alle parole d’ordine dei potenti, del potere. Si affronta per la prima volta la Shoah dentro il suo tempo. La si istituisce come delitto esemplare intorno al quale articolare il racconto della connivenza di una parte degli ucraini con la ferocia nazista, e poi dell’ipocrita rappresentazione dello stato sovietico di una condanna formale in un dispositivo cinematografico che attraverso un’idea e un impiego raffinatissimi delle immagini, non giustizia colpevoli ma cerca di afferrare e rendere icasticamente evidenti le responsabilità.

Il passato non è passato se il presente non va verso un futuro di cambiamento, ma di ripetizione. In questo nuovo affondo della sua ricerca, Sergei Loznitsa torna a sollecitare lo spettatore non al sogno ma alla veglia, non alla ricerca di guide ma al libero, continuo, spietato uso della propria autonomia critica, mai costruendo sentenze di condanna ma percorrendo la via di una scientifica analisi degli eventi nella loro tragica e mai consolante complessità. Esplorando infine il cinema come il più potente e accurato degli strumenti per produrre senso nel nostro tempo.

Lituania indipendente
Mr Landsbergis è un nuovo tassello dello stesso grande congegno riflessivo, anche se collocato in una diversa e distante sezione temporale. Un racconto epico e una ricostruzione speculativa che ripercorre gli anni in cui la riconquista dell’indipendenza della piccola Repubblica di Lituania, uscita dal controllo diretto dell’Unione Sovietica nel marzo del 1990, fu al contempo sintomo, principio, e concausa del collasso che poco dopo avrebbe coinvolto il colosso comunista.

Nel suo film più lungo confezionato fin qui, Loznitsa sintetizza quindici giorni di confronto con un testimone d’eccezione e lascia che la sua voce ordini e diriga il grande apparato d’immagini d’archivio che anche in questo caso il regista ucraino compone in un raffinato dispositivo a due fasi sovrapposte: la forma musicale geometrica ed emotiva del racconto e la struttura speculativa del saggio.

Vitautas Landsbergis, maestro del conservatorio di Vilnius e professore presso l’università nella capitale lituana, oggi quasi novantenne, alla fine degli anni Ottanta si ritrova tra i fondatori di Sajudis, il movimento politico che si prefigge l’indipendenza della Lituania. Il film inizia da qui, dal 1988, anno del primo congresso del movimento: quello che Loznitsa individua come l’inizio della storia che gli interessa ricostruire, illuminando – grazie alla testimonianza diretta di uno dei protagonisti principali – il percorso che condusse una delle più piccole nazioni nello sterminato territorio sovietico a ottenere, contrapponendo la scaltrezza diplomatica alla tracotanza militaresca, il distacco dal giogo di Mosca e a rivendicare il diritto alla propria legittima indipendenza grazie a una serie di brillanti astuzie politiche, di fortunati azzardi, di scelte coraggiose e spregiudicate, rendendo visibile, al di qua e al di là della Cortina di Ferro, il vero volto dell’URSS già agonizzante. A dir il vero l’apertura del film è un incipit che funge quasi da prologo e che chiarisce fin da subito, fulmineamente, uno dei nuclei d’interesse dell’impianto saggistico: in una sintesi di un paio di minuti – che dimostra una volta di più l’eccezionale e per lo più taciuto talento satirico di Loznitsa – ci viene introdotto un Gorbachev meno oleografico del solito (assai diverso ad esempio da quello raccontato di recente da Herzog e da Mansky), alle prese con la folla dei lituani venuti a incontrarlo – e fronteggiarlo – nel corso di una sua visita a Vilnius nei mesi precedenti l’indipendenza.

In pochi gesti, in poche battute è anticipato il ritratto che Loznitsa, attraverso le parole di Landsbergis, quasi ribaltando il punto di vista del precedente The Event (centrato sui giorni del tentato colpo di stato a Mosca), più avanti nel film ricostruisce dell’uomo della Perestroika, rovesciando l’ideale diffuso in Occidente di un illuminato e democratico riformatore: quel che ne esce è il profilo di un capo di stato pienamente interno alla tradizione dell’Unione Sovietica, seppure pronto a gestire il bisogno di riforme e di cambiamento, distante dall’eredità staliniana ma incapace di portare a compimento la traiettoria del suo progetto di trasformazione; in fondo e inevitabilmente, l’ennesimo capo di un impero che si ostinava a raccontarsi come un’utopia democratica.

Per quattro ore, in una cadenza ben temperata, il racconto del leader lituano si alterna alle sezioni delle immagini d’archivio illustrate e introdotte da didascalie mai tanto numerose e accurate. Per la prima volta Loznitsa lascia che un segno esplicito della sua presenza resti inscritto nel suo film, svelando con rare e discrete apparizioni della sua voce fuori fuoco che quello di Landsbergis davanti all’obiettivo non è un monologo, ma una delle due parti di un dialogo, e che il suo racconto è il controcampo dell’incalzante, appassionato, esigente impianto d’interrogazione costruito dal regista.

Tanto in Maidan Loznitsa riusciva a trovare una distanza prospettica davanti all’incandescenza e all’immediatezza della cronaca e dell’attualità, traguardando il presente all’interno di un vasto orizzonte storico, quanto in Mr Landsbergis – a torto già considerato da una parte della critica, soprattutto da quella anglosassone, un film minore per la specificità e per la presunta scarsa rilevanza delle vicende ricostruite – ci immerge nella concitazione di un passato che torna presente nel concerto dell’audiovisione (gli archivi a colori si accostano a quelli in bianco e nero, le inquadrature girate in pellicola si alternano a quelle in video, con il consueto contrappunto di un sonoro ricostruito in studio per la prima volta senza il lavoro del fonico Golovnitski) e grazie a una esorbitante costellazione di dettagli, per poter proiettare l’ombra di queste immagini sulla pallida superficie del nostro tempo e del futuro prossimo a venire.

Quasi in un thriller storico nel quale l’esito finale degli eventi è già noto e certo, ma – secondo una regola quintessenzialmente hitchkockiana – incerte e in parte ignote sono le precise concatenazioni dei fatti che ad esso ci conducono, Loznitsa, dirigendo una poderosa macchina narrativa che procede passando dalla satira all’epos (memorabile la sezione dedicata alla Via Baltica, la manifestazione spontanea che nell’agosto del 1989, vide il dispiegarsi di un cordone umano di due milioni di persone disteso per più di seicento chilometri, lungo le tre repubbliche baltiche), dalla commedia grottesca (Landsbergis dimostra in più occasioni le sue capacità di sagace improvvisatore e brillante umorista) alla tragedia classica, fino al film di guerra (nonostante non si sia mai configurata come una vera e propria guerra, la tensione tra Mosca e il nuovo governo della Lituania indipendente esplode, almeno in due momenti diversi, lanciando i reparti dell’esercito sovietico contro i cittadini inermi, dando luogo a numerose vittime e molti feriti), indaga e svela gli snodi segreti di una storia cruciale che cambiò per sempre il mondo.

L’interesse di Loznitsa e il cuore del film non sono tuttavia centrati intorno alla semplice ricostruzione di una collezione di fatti, per quanto rilevanti: come coerente nuovo sviluppo del proprio percorso di ricerca, il regista individua in questa vicenda un momento della Storia in cui l’invisibile e l’indicibile, inaspettatamente e immediatamente, sono svelati e possono essere osservati, scoperti, compresi. Il discorso critico sulla violenza, la dissimulazione, l’ottusità del potere studiato nello specifico contesto della Russia sovietica trova qui una nuova e feconda forma di articolazione che tesse una rete vasta e sottile collegando le gaffes di Gorbachev alle goffe e tronfie dichiarazioni dei suoi alti funzionari, i segreti di stato alla violenza dell’esercito, la malcelata identità imperialista russa alla serie di false metamorfosi di una madre patria sempre uguale a se stessa; una forma che pur nobilitando l’impiego inedito della testimonianza orale, trova sempre nelle immagini e nelle relazioni tra di esse la forza attiva di un senso.

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