Senza un vero esercito Abiy Ahmed si affida ai civili. Etiopia sul baratro
Corno d'Africa Dopo un anno esatto di guerra e innumerevoli sofferenze per la popolazione, l'Onu accusa le parti di crimini di guerra e Addis Abeba non riesce a piegare i ribelli tigrini. La comunità internazionale chiede la tregua, ma il premier non fa un passo indietro
Corno d'Africa Dopo un anno esatto di guerra e innumerevoli sofferenze per la popolazione, l'Onu accusa le parti di crimini di guerra e Addis Abeba non riesce a piegare i ribelli tigrini. La comunità internazionale chiede la tregua, ma il premier non fa un passo indietro
Anche le guerre compiono gli anni: era il 4 novembre 2020 quando l’attacco a una caserma dell’esercito federale etiope da parte dei ribelli del Tigray provocò la reazione del governo di Addis Abeba. Ma per chi le vive ogni giorno che passa sembra un decennio: per le vittime, i feriti, gli sfollati, per coloro che stanno soffrendo la fame, per le donne che hanno subito stupri quest’anno ha avuto una durata immemore.
Per rendersene conto è sufficiente leggere l’esito dell’indagine congiunta dell’Ufficio per i diritti umani delle Nazioni unite e la Commissione etiope per i diritti umani (Ehrc): tutte le parti coinvolte nel conflitto «hanno in varia misura commesso atrocità, violazioni dei diritti umani internazionali alcune delle quali possono costituire crimini di guerra e crimini contro l’umanità».
Quella che era apparsa come una semplice operazione di polizia contro il governo del Tplf (Fronte di liberazione del popolo del Tigray) da concludersi in poche settimane si è rivelata una guerra il cui esito potrebbe travolgere l’intera Etiopia. L’esercito tigrino è a poche centinaia di chilometri dalla capitale.
Le città lungo l’autostrada che collega Adua ad Addis Abeba, da giugno, sono state sistematicamente conquistate dal Tplf (Wukro 25 giugno, Mekellé 30 giugno, Adua 30 giugno, fino alle più recenti Kombolcha 31 ottobre, Dessié 2 novembre).
Martedì il primo ministro etiope Abiy Ahmed ha dichiarato lo stato di emergenza invitando i cittadini a difendere con le armi i loro quartieri. I bombardamenti e la supremazia aerea dell’esercito etiope sembrano dare scarsi risultati nell’arrestare l’avanzata tigrina che prima ha liberato i suoi territori e poi si è spinta oltre, sia nella regione Afar che Amhara. Come spiega William Davison dell’International Crisis Group: quello tigrino «è un esercito di fanteria, non è che ci sia una fabbrica di armi o un istituto di addestramento che si possano prendere di mira».
Le forze etiopi starebbero pagando le scelte fatte dal premier che, nel triennio passato, ha mandato forzatamente in pensione e licenziato il personale militare più esperto. Il reclutamento di persone non professioniste e improvvisate ha ulteriormente indebolito le capacità di azione.
Jeffrey Feltman, l’inviato speciale degli Stati uniti per il Corno d’Africa, sta svolgendo opera di mediazione e ha invitato le parti a una tregua. Ha anche detto esplicitamente che gli Stati uniti «si oppongono a qualsiasi mossa del Tplf per assediare Addis Abeba».
Gli Usa hanno escluso l’Etiopia dall’African Growth and Opportunity Act, accordo che permette l’ingresso di merci senza dazi nei mercati statunitensi: per il settore manifatturiero etiope significa perdere milioni di posti di lavoro. Anche Russia e Unione europea si sono espresse per il cessate il fuoco, come il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres che ha parlato con Abiy Ahmed. Il portavoce del premier, Billene Seyoum, ha accusato i media internazionali di essere «eccessivamente allarmisti e di perpetuare la propaganda terroristica come verità da uffici lontani e distaccati dall’Etiopia, è altamente immorale».
Fonti locali contattate da il manifesto hanno segnalato forti movimenti di camion militari diretti da Addis Abeba verso est, ma in città la situazione appare tranquilla. Dopo un anno segnato dalla violenza tutti stanno perdendo: l’Etiopia in primis, il Tigray, la comunità internazionale e l’Unione africana. Perde Abiy, premio Nobel per la pace. Potrebbe ancora dare un segnale: dimettersi, fare un passo indietro perché l’Etiopia ne faccia uno avanti.
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