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Gli abiti usati inquinano il Ghana

Gli abiti usati inquinano il GhanaDiscarica abiti usati italiani ed europei in Ghana – Kevin McElvaney/ Greenpeace

Africa Un rapporto di Greenpeace svela il lato oscuro del fast fashion: vestiti inservibili inviati in Africa, dove inquinano l’aria, l’acqua e creano «spiagge di plastica»

Pubblicato circa un mese faEdizione del 17 ottobre 2024

Quello di Kantamanto, alla periferia di Accra, è il secondo mercato di abiti usati del Ghana. Vi lavorano 30 mila persone. Ogni settimana vi arrivano quindici milioni di vestiti di seconda mano provenienti da tutta l’Europa. La maggior parte di questi sono «scorte morte», cioè abiti conservati nei magazzini per anni e rimasti invenduti, mentre gli altri sono capi di abbigliamento donati a enti di beneficenza o vestiti usati lasciati nei cassonetti per il riciclaggio. Secondo un’inchiesta di Greenpeace, molti di questi hanno i marchi H&M, Zara, Primark o Shein, tutte compagnie del cosiddetto fast fashion, cioè che producono abiti «usa e getta». Solo un terzo, circa sei milioni di vestiti, vengono rivenduti o riciclati. Gli altri sono inutilizzabili e finiscono nelle discariche abusive o vengono bruciati nei lavatoi pubblici, contaminando l’aria, il suolo e le acque, e mettendo a rischio la salute delle comunità locali.

I CAMPIONI D’ARIA PRELEVATI DAGLI AMBIENTALISTI dai lavatoi pubblici dello slum Old Fadama ad Accra, la capitale del Ghana, hanno mostrato livelli elevati di sostanze tossiche, come il benzene e altri idrocarburi policiclici aromatici. Le analisi sugli abiti hanno rivelato che circa il 90 per cento è costituito da fibre sintetiche come il poliestere, contribuendo alla diffusione di microplastiche nell’ambiente. Secondo gli ambientalisti, l’accumulo di rifiuti tessili sta anche soffocando gli habitat naturali, inquinando i fiumi e creando delle «spiagge di plastica» lungo la costa.

IL RAPPORTO «FAST FASHION, SLOW POISON: The Toxic Textile Crisis in Ghana, curato da Greenpeace Africa e Greenpeace Germania, denuncia l’impatto di questi indumenti provenienti dal nord del mondo su ambiente, comunità ed ecosistemi del paese dell’Africa occidentale. Il Ghana è infatti la seconda principale destinazione degli abiti di seconda mano inviati dall’Europa in Africa. I principali esportatori europei sono il Belgio e la Germania, seguiti dall’Italia, che nel 2022 ha inviato in Ghana quasi 200 mila tonnellate di indumenti usati. Dai nostri porti, inoltre, partono molte delle spedizioni di vestiti dirette in Africa.

OGNI ANNO NELL’UNIONE EUROPEA vengono distrutti più di 230 milioni di calzature e vestiti. L’80 per cento di questi finisce in discariche o viene bruciato negli inceneritori, mentre altri vengono esportati in paesi del sud del mondo, spesso alimentando traffici poco trasparenti. Per Greenpeace, l’industria della moda, in particolare il fast fashion, è tra le più inquinanti. Oltre il 60 per cento delle fibre tessili usate per produrre gli abiti, come nylon, acrilico e poliestere, sono sintetiche. Il consumo di queste fibre, che hanno sostituito il cotone, è passato da poche migliaia di tonnellate nel 1940 a oltre 60 milioni di tonnellate nel 2018. Molte derivano dalla raffinazione di idrocarburi come gas e petrolio. Alcune di queste, come il poliestere, già dopo i primi lavaggi comincia a rilasciare microplastiche che finiscono nei mari e poi, risalendo la catena alimentare, anche all’interno del cibo che mangiamo.

PER QUESTO GLI AMBIENTALISTI HANNO LANCIATO una campagna per chiedere alle istituzioni europee di «regolamentare il fast fashion, vietando la pubblicità delle aziende che promuovono un modello di business vorace, con notevoli impatti sociali e ambientali». Inoltre, propongono che sia approvato un sistema di «responsabilità estesa» del produttore che imponga alle aziende di farsi carico dell’intero ciclo di vita dei prodotti, anche quando diventano rifiuti, e inoltre di imporre alle aziende di fornire informazioni trasparenti sulla loro catena di approvvigionamento e di produzione e di mettere in commercio abiti che siano durevoli, riparabili, disegnati per essere riciclabili, prodotti senza sostanze chimiche e ricorrendo a fibre riciclate.

SAM QUASHIE-IDUN, L’AUTORE DEL RAPPORTO, dice che «le prove che abbiamo raccolto mostrano chiaramente che l’industria del fast fashion non è soltanto un problema del settore moda, ma una crisi sanitaria pubblica a tutti gli effetti, poiché questi indumenti stanno letteralmente avvelenando la popolazione di Accra». Greenpeace Africa chiede al governo ghanese di vietare l’importazione degli scarti, limitando l’import ai soli indumenti che possano essere realmente riutilizzati. Chiede inoltre che i marchi di moda siano responsabili dell’intero ciclo di vita dei loro prodotti, incluso lo smaltimento dei rifiuti e il loro riciclo. Allo stesso tempo, secondo Quashie-Idun, è necessario che la comunità internazionale supporti lo sviluppo di un’industria tessile sostenibile nel paese africano. «La situazione in Ghana riflette una mentalità neocoloniale in base alla quale il nord del mondo trae profitto dalla sovrapproduzione e dagli sprechi, mentre Paesi come il Ghana ne pagano il prezzo. È tempo per un trattato globale che affronti questo squilibrio e protegga le comunità dai danni causati dal fast fashion», commenta.

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