Senza Eros e tempo, in America la storia diventa cronaca
Stati Uniti In questo spazio vago e triste della politica, la campagna elettorale per le prossime presidenziali
Stati Uniti In questo spazio vago e triste della politica, la campagna elettorale per le prossime presidenziali
Questo è un paese dove, sia nella politica che nell’economia, e in genere, nella società, c’è poco Eros e non c’è mai tempo. E si sa, senza Eros e senza tempo, la storia diventa cronaca, la libertà si trasforma in liberismo, la politica si riduce ad un antagonismo sterile, come scriveva, tempo fa, la filosofa della politica Chantal Mouffee. E dunque, la campagna presidenziale 2024 rientra appieno in questo spazio privo di Eros e di tempo, con tutti i colpi di scena del caso: nel giro di qualche settimana abbiamo assistito all’attentato alla vita di Donald Trump, alla scelta del suo candidato alla vice presidenza, J.D. Vancescelta che si sta rivelando disastrosa per lo stesso Gop, alla abdicazione di Biden e alla conseguente elevazione di Kamala Harris.
In questo spazio vago e triste della politica, la narrazione televisiva la fa da padrona: Netflix rimanda in circolazione il film Hillbilly Elegy (tratto dal libro, interessante, del senatore dell’Ohio) mentre il creatore della serie Veep (manco a farlo apposta, la storia di un presidente che abdica a favore del suo vice, una donna), firma un editoriale sul Nyt lamentando il fatto che la politica segue ormai la falsariga di una serie tv, e non viceversa.
SÌ: LA POLITICA, questo teatrino di serie B al quale moltissimi americani non danno peso ma al quale deve ancora prestare attenzione il resto del mondo. Non solo perché gli Usa rimangono comunque la locomotiva del sistema capitalistico mondiale, ma anche perché i destini delle democrazie liberiste seguono simili andazzi. Qui risiede una delle ambivalenze più forti che si notano quando si mette piede in America: ciò che è di vitale importanza agli equilibri geopolitici internazionali è di scarso interesse fuori da certi circoli a Dc, Nyc, o Chicago.
D’altra parte, nonostante l’ostentata opulenza che ancora abbaglia gli osservatori stranieri, il paese è in sofferenza e quindi, appunto, non c’è tempo da perdere. Dati recenti sull’economia indicano un rallentamento, anche se non una recessione, con conseguente perdita di posti di lavoro. Il disastro climatico è ormai sotto gli occhi di tutti: l’estate in corso sta registrando un numero sempre crescente di incendi nel nord ovest del paese. Dalla California al Colorado, l’America brucia, mentre in alcune zone del Mid-west e del Sud si registrano temperature ben oltre i 40 gradi centigradi. Brucia, il paese, succube di un sistema economico che divora tutto e lo fa senza passione: ne sono testimoni i più giovani, che tentano di soffocare gli ardori adolescenziali sotto i fumi del fentanile. O quelli le cui aspirazioni ad entrare, o rimanere, nella tanto ambita middle class sono regolarmente umiliate per via degli enormi debiti studenteschi: si pensi che uno studente appena uscito dal college ha in media un debito di circa 35 mila dollari sulle spalle.
LA «POLITICA IDENTITARIA», eredità malefica della resa della politica alle logiche neoliberiste, la fa da padrona. Kamala è perfetta: giovane (relativamente), donna, di origini afroamericane e sudasiatiche. Poca attenzione viene data al fatto che le sue posizioni siano controverse: troppo liberal per i Maga («Make America Great Again»), troppo centrista per l’ala a sinistra dei Dems; una ex-poliziotta, in fondo, nel suo ruolo di Public Persecutor in California. A parte dire a Netanyahu, in visita a Washington recentemente: «questa guerra deve finire», non si è ancora espressa chiaramente contro il genocidio a Gaza. La tanto anticipata scelta del suo vice, caduta, dopo molte speculazioni, sul governatore del Minnesota Tim Waltz, ha già scatenato le ire di J.D. Vance con le sue prevedibili quanto strumentali accuse di antisemitismo. Vedremo come si destreggerà Kamala tra queste accuse e la necessità di prendere una posizione. Il primo test è imminente con la ripresa, nelle prossime settimane, dell’anno accademico e quindi, ci auguriamo, delle occupazioni Pro-Palestina degli atenei.
Nel frattempo, la campagna elettorale ha riciclato molti dei temi del femminismo «identitario digitale» che caratterizzò la campagna di Hillary Clinton nel 2016. Dal 22 luglio, le meme imperversano nei nostri news feed: ecco Kamala con l’armatura di ferro, pronta a lanciare dardi e saette; ecco l’esercito di gatti minacciosi (ovvio riferimento alla rivincita delle «gattare senza figli» prese in giro da J.D. Vance) che ci difenderanno dall’imminente tirannia trumpiana; sono tornate anche le «Pantsuit Nation», il movimento pro-Hillary formato predominantemente da donne e chiamato così per via delle pantsuits, i completi giacca-pantaloni che contraddistinguevano lo stile di quella aspirante alla Casa Bianca. Ai tempi, ci si preoccupava del fatto che ci fossero solo donne bianche all’interno dell’organizzazione; nell’era di Kamala, invece, si intravedono anche donne afroamericane e latine. Basterà questo maquillage per ottenere il supporto necessario per vincere la Casa Bianca?
OVVIAMENTE, no. Ciò che manca in questa «identity politics» e in questo femminismo identitario, e quindi nella dialettica politica, sono le classi economiche e sociali operaie, cosiddette «subalterne», le reali forze produttive della società, come le chiamava Antonio Gramsci (molto letto tra l’intellighenzia nordamericana ma evidentemente poco compreso nella sua portata dirompente e rivoluzionaria) che invece rimangono oscurate, abbandonate. La lotta di classe, si dice, è stata soffocata, anzi non c’è mai stata in America. Beh, a parte il fatto che questo non è assolutamente vero, il punto è che quando l’agonismo di classe languisce, l’eros si ritira dagli spazi della politica e l’energia si disperde.
A proposito di energia, si dice che l’elevazione di Kamala abbia rienergizzato i Dems. Vero: infatti si è avvertito qualche brivido lungo la schiena dei vari radicai chic e dei loro organi di stampa (il Nyt gongola dal 21 luglio). A parte aver trascorso gli scorsi giorni a chiedersi chi sarebbe stato il VP di Harris (maschio, femmina, bianco, nero, latinx, etc., e giù per tutte le declinazioni della identity politics), ci si continua a chiedere se Kamala riuscirà a mantenere alta questa energia fino al 5 novembre. Non vorrei essere pessimista ma, per rienergizzare la situazione e riportare un po’ di vitalità in questo spazio vago e triste in cui è stata ridotta la politica, ci vuole ben altro: occorre riappropriarsi di un tempo nuovo, sganciato dagli imperativi del capitale, e (ri)portare l’Eros, le lotte e le passioni, dalle periferie al centro dell’agone politico.
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