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«Sentenze sessiste, serve una rivoluzione culturale nei tribunali»

Una protesta transfemminista di Non Una Di Meno foto AnsaUna protesta transfemminista di Non Una Di Meno – foto Ansa

Giustizia Parla l’avvocata penalista Elena Biaggioni (vicepresidente Dire): ancora troppi stereotipi e pregiudizi, investire sulla formazione

Pubblicato circa un anno faEdizione del 19 agosto 2023

Un agosto difficile per le donne in Italia. Ai casi di violenza domestica e femminicidio si aggiunge il sessismo dei tribunali. In questi giorni sono state rese pubbliche le motivazioni della sentenza del Gup di Firenze, emessa il 28 marzo 2023, con la quale il giudice ha assolto due ragazzi accusati di stupro, ritenuti non punibili perché avrebbero commesso «un errore di percezione del consenso». Elena Biaggioni, avvocata penalista e vice presidente della rete dei centri anti violenza Dire, commenta la decisione.

Nella sentenza di assoluzione si parla di «errore sul fatto che costituisce reato» e di «errata percezione» del consenso. Quale è la cornice giuridica di queste motivazioni?

Attualmente il modello normativo italiano non è consensualistico. Nella legge che regola la violenza sessuale, la 609 bis del codice penale, non è mai citato il consenso. La rilevanza del consenso è tuttavia pacificamente riconosciuta dalla Corte di Cassazione da tempo con una giurisprudenza consolidata. Il tema del consenso è entrato nella pratica dei tribunali anche con le convenzioni internazionali. La Convenzione di Istanbul sancisce che la mancanza del consenso è la base giuridica della definizione di violenza sessuale e, ripeto, la Corte di Cassazione ha recepito da tempo la necessità di interpretare le norme interne anche alla luce di quelle sovranazionali. Ora gli strumenti giuridici ci sono, ma il percorso di applicazione è complesso.

Elena Biaggioni
Elena Biaggioni

Cosa impedisce in sede processuale di dare rilevanza all’elemento del consenso?

Il problema è soprattutto culturale. Giudici e operatori del diritto ragionano in termini di «violenza, minaccia, abuso di autorità», continuando a interpretare la violenza sessuale come un’azione annunciata da gesti brutali. Per riconoscere la violenza è necessario emanciparsi da tale lettura. Indagare il consenso è un’operazione più complessa che rischia di introdurre elementi utili alla ricostruzione, che spesso si rivelano intrisi di pregiudizi e stereotipi sessisti. Si chiama cultura dello stupro e indica proprio questo: nella società, come nelle aule di tribunale, si attribuiscono significati impliciti ai comportamenti della vittima che vanno nella direzione di minimizzare la gravità del fatto e di fornire una giustificazione ai colpevoli.

Nella sentenza di Firenze vengono elencati come elementi a favore dell’assoluzione il fatto che «la ragazza era in uno stato di alterazione più o meno accentuato e non appariva in grado di esprimere un valido consenso» e che «aveva avuto, nei mesi precedenti, dei rapporti sessuali con un imputato».

Entrambi questi elementi dovrebbero costituire delle aggravanti. Si dovrebbe protestare per il modo in cui vengono impostati questi processi. Essere ubriachi semmai può ostacolare la formazione del libero consenso quindi la logica sarebbe inversa. Se qualcuno entra in casa mia il giudice non si preoccupa di capire se ero ubriaca e se ho manifestato abbastanza dissenso ma si basa sul fatto che la persona è entrata senza un mio invito. Per lo stupro invece si parte dal presupposto che la donna sia costantemente disponibile al rapporto sessuale e che in caso contrario debba fornire le prove evidenti della sua contrarietà. Il fatto di aver avuto in precedenza un flirt con uno degli imputati invece mostra un pregiudizio ancora più duro da estirpare: quello per il quale la violenza sessuale è un reato commesso da estranei. Secondo i dati dell’Istat sono soprattutto persone conosciute dalla vittima, partner o ex partner, a commettere questo crimine.

Questa sentenza non è l’unica ad aver suscitato critiche.

Nel 2021 l’Italia è stata condannata dalla Corte europea per una sentenza ritenuta discriminatoria su un caso di violenza sessuale. In quel caso la ragazza che aveva denunciato era stata definita «disinibita», specificando che indossava degli «slip rossi». Un altro esempio è la recente sentenza del Tribunale di Roma sul caso del collaboratore scolastico accusato di palpeggiamento. I due motivi principali alla base dell’assoluzione sono la breve durata del gesto e il fatto che sia avvenuto in pubblico. Due condizioni che sappiamo bene caratterizzano questo tipo di azioni, come nel caso delle molestie sui mezzi pubblici.

Quali sono gli strumenti per portare la cultura del consenso nelle aule di tribunale?

Bisogna fare un grande lavoro di formazione degli operatori della giustizia. Ma non basta un corso di due giorni. Bisogna insegnare a riconoscere gli stereotipi e i pregiudizi in materia di violenza sessuale, serve una rivoluzione culturale all’interno dei tribunali, in Spagna per una sentenza su un caso simile ci sono state manifestazioni oceaniche. Forse dobbiamo ricominciare a presidiare questi processi.

Stiamo andando nella direzione giusta o c’è una regressione?

Credo che dei progressi siano stati fatti, soprattutto perché sentenze di questo tipo ci sono sempre state ma ora finalmente, anche grazie al lavoro dei media, se ne parla. Analizzare il linguaggio, le parole di queste sentenze, più che gli esiti dei singoli casi, è utile a capire le distorsioni del nostro sistema culturale.

Il Gup di Firenze spiega che tra i motivi della non punibilità c’è il fatto che i ragazzi non avrebbero avuto gli strumenti per riconoscere il mancato consenso a causa di una «concezione pornografica o distorta della sessualità» o di « deficit educativi».

Innanzitutto bisogna evitare qualsiasi parallelismo tra il sesso e la violenza sessuale. In alcuni paesi del nord Europa il termine è mutato in violenza sessualizzata (sexualized violence) proprio per sottolineare che si tratta di una forma specifica di violenza che usa la sessualità per opprimere e annientare l’altro. Aggiungo che sono anni che chiediamo incessantemente di introdurre l’educazione sessuale nelle scuole, l’Italia è uno dei pochi paesi europei a non averla. Non solo, non si fanno nemmeno campagne pubbliche per sensibilizzare sul consenso. Continuiamo a trattare questo argomento come un tabù.

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