Natale a casa Foxconn, ma senza iPhone 14 sotto l’albero. È questa la prospettiva temuta dalla Apple a seguito dei disordini della scorsa settimana nello stabilimento manifatturiero di Zhengzhou, provincia cinese dello Henan, dove centinaia di dipendenti sono insorti contro l’azienda per chiedere maggiori diritti sul lavoro e protezione contro i contagi dal Covid-19.

Le proteste hanno rallentato la produzione per soli due giorni ma alla Foxconn, azienda taiwanese dove si assembla il 70% degli iPhone del colosso della Silicon Valley che da sempre si fregia del lavoro incessante all’interno delle proprie fabbriche, anche un piccolo inghippo può costare caro. Secondo l’ultimo report dell’agenzia di stampa statunitense Bloomberg, le proteste dei lavoratori dello stabilimento di Zhengzhou causeranno un deficit di 6 milioni tra iPhone 14 Pro e Pro Max e un ritardo nelle consegne ai rivenditori previsto tra le sette e le 12 settimane. A poco è servita la buonuscita da 1.400 dollari offerta dall’azienda ai manifestanti per placare le proteste. Il danno alla filiera è fatto.
Anche a manifestazioni terminate, i rallentamenti alla produzione della Foxconn sono stati l’ennesimo campanello d’allarme per gli investitori che guardano alla Cina. Politiche in continuo cambiamento, malcontento sociale e la costante incertezza portata dalla politica Zero Covid hanno trasformato la Repubblica popolare cinese da garanzia di successo economico a pericolosa incertezza. “Le proteste sono un tema congiunturale di questo momento, ma rientrano in un contesto più ampio di cautela dato dall’inaffidabilità dell’andamento dell’economia cinese”, racconta al manifesto Filippo Fasulo, ricercatore associato dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi).

A incidere sul mercato globale è anche il clima di insofferenza che in questi giorni ha visto diversi centri urbani e università cinesi protestare contro le misure di contenimento della pandemia. A seguito del weekend di manifestazioni e scontro con la polizia a Shanghai, Pechino, Hangzhou e Wuhan lo scorso lunedì l’indice Hang Seng di Hong Kong registrava un cedimento dell’1,57%. Segnale che il tanto discusso disaccoppiamento delle filiere di produzione promosso dagli Stati Uniti di Joe Biden è ancora lontano e che la dipendenza delle imprese internazionali da quella che una volta veniva definita “fabbrica del mondo” è ancora tangibile.

Non è la fine del made in China quindi, ma per far fronte all’incognita cinese da tempo le big tech statunitensi stanno muovendo la loro produzione in paesi del Sud-Est asiatico. Apple assembla i suoi iPad nel nord del Vietnam. Microsoft ha cominciato a spedire Xbox dagli stabilimenti di Ho Chin Minh mentre Amazon guarda all’India per i suoi prodotti di elettronica. “Alla delocalizzazione stanno pensando tutti ormai da tempo, ma per il momento rimane troppo costosa. Gli effetti delle decisioni di oggi si vedranno solo tra qualche anno”, commenta a proposito Fasulo. Coinvolti non solo i prodotti di elettronica ma anche circuiti integrati, componenti utili nell’automotive ed elettrodomestici.

L’assemblaggio passa ancora per la forza lavoro cinese e gli sforzi di delocalizzazione da soli non bastano per sciogliere gli stretti nodi di filiere e catene di approvvigionamento.

Sulle proteste anti-Covid dei cittadini cinesi gli analisti invitano alla cautela. Lo spauracchio delle borse registrato negli scorsi giorni si dovrebbe assestare con l’intervento governativo, repressivo o meno che sia. Ma le restrizioni non accennano a frenare e resta latente, ma pronta a scoppiare, la frustrazione dei centri urbani sottoposti a continui lockdown e a misure di contenimento ritenute esasperanti. “Il modello di riferimento potrebbe essere quello delle proteste di Hong Kong del 2014” spiega Fasulo. “Una volta assestate le proteste, anche i mercati ritroveranno stabilità”.

Intanto dal mondo delle big tech cinesi il Financial Times rende noto che il mogul di Alibaba, Jack Ma, ha trascorso gli ultimi sei mesi in Giappone, lasciandosi alle spalle la Cina (e la Zero Covid) dopo le stangate ricevute dalla sua azienda due anni fa come parte della campagna di rettificazione del digitale a opera di Pechino. Lasciare la fabbrica del mondo è ancora troppo costoso, ma nella Cina dei lockdown serrati e del malcontento sociale, anche i più ricchi ci fanno un pensiero.