Giorgia Meloni e suoi cosiddetti patrioti preparano una grande convention Roma il 24 settembre per festeggiare con enfasi un anno di presunti successi del governo. In realtà, come è noto a chi guardi le condizioni dell’Italia con oggettività, non c’è proprio niente per cui brindare: il calo del Pil nel secondo trimestre, con un misero +0,7% sul 2023, e gli ultimi dati sulla disoccupazione confermano quello che tutti vediamo: il paese è in grande sofferenza e questo governo non ha in testa alcuna ricetta per migliorare le cose.

L’economia arranca, la domanda interna cala, gli italiani sono sempre più impoveriti ma soprattutto privi di qualunque speranza di poter invertire questo trend. La legge di Bilancio, visti i numeri, non sarà in grado di migliorare le condizioni di vita. Anzi, senza i necessari investimenti anche la sanità pubblica rischia il collasso.

E le opposizioni? Schlein ha il merito di aver resuscitato il Pd in sei mesi dalla sua elezione: nel settembre 2022, dopo il suicidio elettorale, la corsa alle politiche senza alleati di peso nel nome dell’inesistente «agenda Draghi», i dem erano al ground zero della loro storia. Con poche parole d’ordine di sinistra Schlein ha rimesso in piedi il carrozzone, e l’accoglienza che sta ricevendo alle feste dell’Unità dimostra che il nuovo corso, a dispetto dei tanti profeti di sventura, non sta andando male.

Anche il rapporto con i potenziali alleati, M5S in testa, si sta pian piano ricucendo, non sulle chiacchiere ma su proposte giuste: salario minimo, difesa della sanità pubblica, lotta alla precarietà. Su quest’ultimo tema la leader Pd ha anche ipotizzato un sostegno a un eventuale referendum della Cgil per ripristinare l’articolo 18, abolito dal Pd di Renzi. Il referendum è solo un’ipotesi, non c’è nessuna raccolta firme, ma già sui giornali neoliberisti (praticamente tutti) si leggono indignate articolesse sul Pd che si autosfiducia e rinnega se stesso.

Forse non tutti sanno che nei grandi partiti progressisti questo accade da sempre: con stagioni e leader diversi cambia anche la lettura della società, e con questa le ricette da proporre agli elettori. Schlein è sempre stata contro il Jobs Act, uscì dal Pd in quei mesi e dunque non ha alcun problema a dire che fu un grave errore, come del resto ha già fatto Enrico Letta. E non deve neppure avere paura di considerare gli ultimi tre decenni di «riformismo» come la vera ragione che ha allontanato le fasce più deboli dai partiti di centrosinistra. La lettura ottimista e progressiva della globalizzazione neoliberale che fu fatta allora era sbagliata, e oggi che questo è sotto gli occhi di tutti sarebbe assurdo restare inchiodati a quelle ricette. Questo non riguarda solo il Jobs Act, ma tutte le scelte, anche del centrosinistra, che dagli anni Novanta hanno alimentato la precarietà sostenendo che fosse utile all’economia.

Il problema del Pd, semmai, è che è ancora troppo impregnato di quelle tesi, che ad ogni tentativo di rinnovamento c’è qualche vecchio dirigente che storce il naso e minaccia sfracelli. E che Schlein, oltre a parole d’ordine azzeccate, non ha ancora evidenziato una proposta di governo alternativa a Meloni ma anche al centrosinistra post-1989. Operazione tutt’altro che facile, ma necessaria.

Non basta evocare la Spagna per svuotare l’oceano del precariato, non basta dire più sanità pubblica. Serve un’idea di redistribuzione radicale, che partendo dalla leva fiscale tolga risorse ai predatori e agli evasori che hanno accumulato ricchezze anche in tempi di crisi per mettere mano al welfare in modo deciso a favore dei più deboli, e di almeno tre generazioni under 50 che sopravvivono tra lavoretti e mutui garantiti dai genitori. Il rischio, per Schlein, non è quello di un riformismo troppo hard, o di diventare una succursale della Cgil, ma di venire risucchiata dai poteri, economici e mediatici, che rimpiangono il vecchio Pd che ha sostenuto con gioia i governi Monti e Draghi.

Lo stesso vale per la guerra: il riarmo è la diretta conseguenza dell’impegno europeo in Ucraina. Se non si arriva a un cessate il fuoco parlare di taglio delle spese militari è solo fumo negli occhi. Dopo un anno e mezzo limitarsi a invocare «un ruolo più attivo dell’Europa per una soluzione diplomatica» è un altrettanto inutile esercizio retorico. La guerra sta già plasmando le nostre economie e indebolendo lo stato sociale. Se anche gli americani iniziano a mandare segnali per dire che lo sforzo bellico di Kiev non può andare avanti all’infinito, è tempo che anche i progressisti italiani cambino parole d’ordine. Non esiste una pace che soddisfi al 100% le esigenze di Zelensky, bisogna sporcarsi le mani trattando anche col nemico russo. E se al governo inizia a mancare l’aria, è ora che l’opposizione esca definitivamente dalla sua comfort zone.